– Ottobre 2017 –
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Il mobbing è una cosa seria e a furia di abusarne in tribunale diventerà come il demansionamento o il danno alla persona: alla fine non ci crederà più nessuno.
Due interessanti recenti pronunce sono significative in questa direzione.
Con la sentenza della Cassazione del 14 settembre 2017 n. 21328 è stato ribadito il principio per il quale grava sul lavoratore l’onere di provare l’intento persecutorio del datore di lavoro.
In sostanza, affinché si configuri una fattispecie di mobbing non è sufficiente che il datore di lavoro abbia posto in essere (direttamente o per mezzo di propri dipendenti) una serie di atti vessatori, per quanto reiterati e sistematici.
Occorre infatti che venga direttamente allegato e dimostrato in giudizio l’elemento soggettivo caratterizzante il mobbing, vale a dire “l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Molto interessante è anche la sentenza della Cassazione del 26 settembre 2017 n. 22375 secondo la quale la denuncia formulata da un lavoratore, nei confronti del legale rappresentante della società, di maltrattamenti e lesioni personali ricollegati ad una condotta vessatoria asseritamente subita in costanza del rapporto di lavoro, è idonea ad integrare giusta causa di licenziamento se ne emerga il carattere calunnioso, nel senso che il lavoratore che ha sporto la querela si è mosso nella consapevolezza della non veridicità dei fatti ascritti al legale rappresentante.
Scarica Cass. 14 settembre 2017 n. 21328
Scarica Cass. 26 settembre 2017 n. 22375
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