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– a cura di Filippo Capurro

Una interessante e recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 30 marzo 2017 n. 8260) impone un’attenta riflessione sulle tecniche di redazione dei verbali di conciliazione in materia di lavoro.

In pratica si muove dal principio per il quale, anche nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza implica la presenza di un dolo omissivo.

Ciò determinerebbe per il lavoratore la possibilità di richiedere al giudice l’annullamento del verbale stesso per vizio della volontà. Infatti si sarebbe nell’ambito di un’ipotesi in cui i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato (art. 1439 cod. civ.).

Nel caso di specie, nell’ambito di una procedura di mobilità, il datore di lavoro aveva dedotto, per giustificare il recesso, la posizione del lavoratore tra quelle in esubero, ma aveva poi assunto un altro dipendente per lo stesso incarico.

Un’accortezza opportuna – che a volte potrebbe essere di per sé sufficiente – è quella di redigere le premesse del verbale di conciliazione in modo tale da evitare la possibilità che possa essere poi dedotto il vizio sopra descritto o altri vizi ancora.

Scarica 20170330 – Cassazione 30 marzo 2017 n. 8260

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