– a cura di Alessia Capella – Novembre 2019 –
A seguito dello sviluppo tecnologico e dell’utilizzo massivo della telefonia mobile, sempre più frequentemente ci si confronta con la possibilità di utilizzare in giudizio la messaggistica WhatsApp come materiale documentale.
Trattandosi di documento informatico, ai fini della validità ed efficacia probatoria operano i principi di cui all’art. 20, comma 1, d.Lgs. n. 82/2005 (c.d. Codice dell’amministrazione digitale), modificato dall’art. 20 del D. Lgs. n. 217/2017, in forza della quale il documento informatico: a) “soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia dell’art. 2702 c.c. quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata”; b) in tutti gli altri casi, “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alla caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”
La giurisprudenza sviluppatasi negli ultimi anni ha tentato di fornire alcune risposte volte per la maggior parte non solo a determinare il valore probatorio di tale messaggistica, ma spingendosi addirittura a considerare tale modalità un valido strumento di comunicazione tra Datore di Lavoro e Lavoratore.
Lo spunto di riflessione nasce oggi dalla sentenza del Tribunale di Milano 23/08/2019 n. 1936 est. Colosimo , che ha riconosciuto la ritorsività del licenziamento intimato al dipendente – con conseguente reintegra nel posto di lavoro – proprio sulla base della correlazione temporale tra le richieste formulate dal Lavoratore via WhatsApp e la comunicazione di licenziamento.
Nel caso esaminato, il Lavoratore veniva licenziato per asserito mancato superamento del periodo di prova dopo aver reiterato nelle settimane precedenti richieste di pagamento dello straordinario e di maggiorazioni retributive via WhatsApp, indirizzando la chat alla Dipendente aziendale addetta alla rendicontazione delle ore di lavoro e al pagamento delle retribuzioni.
In tale prospettiva, il Giudice di prime cure ha riconosciuto la precipua valenza probatoria degli scambi WhatsApp per un duplice ordine di ragioni:
- la messaggistica era stata prodotta documentalmente;
- la dipendente appartenente all’ufficio rendicontazione, con cui era intercorsa la chat, aveva confermato in sede testimoniale la genuinità e il contenuto dei messaggi Whatsapp, nonché l’appartenenza del profilo di provenienza delle conversazioni intercorse.
Tali elementi hanno dunque consentito di collocare nel giusto contesto fattuale e temporale il licenziamento intimato al dipendente, colorendolo di ritorsività, quale ingiusta reazione a una pretesa del tutto legittima del Lavoratore.
Del resto, già in passato la giurisprudenza di merito aveva avuto modo di ribadire siffatta impostazione, evidenziando l’utilizzabilità della messaggistica WhatsApp come fonte di prova in sede giudiziale.
Si vedano, in particolare:
- Tribunale di Milano 21.07.2016 n. 2242 est. De Carlo
, secondo cui dalla messaggistica Whatsapp emergevano elementi finalizzati alla configurazione di un rapporto di lavoro subordinato (analogamente a quanto statuito in seguito dal Tribunale di Torino con sentenza n. 55/2018 del 15/01/2018);
- Tribunale di Milano 30/05/2017 n. 1622 est. Scarzella
, ha ritenuto che fosse giusta causa di licenziamento la creazione di un gruppo WhatsApp utilizzato per denigrare il datore di lavoro, così sminuendo l’autorevolezza e il potere esercitato dallo stesso nei confronti degli altri colleghi.
- Di particolare forza è poi, la pronuncia Tribunale di Catania 27/06/2017 est. Fiorentino
, che ha addirittura stabilito l’idoneità della comunicazione di licenziamento intimata via Whatsapp ad assolvere all’onere della forma scritta stabilito dall’art. 2 della L. n. 604/66, emergendo dalla messaggistica in questione la volontà aziendale di recedere dal rapporto di lavoro.
- L’efficienza della messaggistica – quale celere strumento di comunicazione – è dettagliata dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 8802/2017 del 30 ottobre 2017 che, in materia di comunicazione della malattia tramite WhatsApp – ha avuto modo di precisare come la messaggistica costituisca un documento scritto e il suo invio può essere più efficiente di una raccomandata a/r perché la ‘doppia spunta’ grigia e blu dà informazioni immediate su data e ora di consegna e lettura.
Chiarita la portata della messaggistica WhatsApp, rimangono ora da definire quali siano le modalità di produzione in giudizio, traendo spunto proprio dai principi affermati sinora, di cui le pronunce di merito si sono fatte portatrice.
Innanzitutto occorre:
- Depositare documentalmente gli scrennshots del cellulare relativi alla messaggistica;
- effettuare la relativa trascrizione nel corpo dell’atto;
- rendere testimonianza su tale messaggistica, mediante apposita richiesta istruttoria, o comunque, ad avviso di chi scrive, rendere evidente la veridicità e la coerenza dei messaggi nel e con il generale contesto dei fatti.
Al fine di prevenire eventuali contestazioni avversarie che potrebbero emergere, derivanti dal disconoscimento dei WhatsApp, occorre:
- offrire la produzione del cellulare contenente la messaggistica, richiedendo apposita perizia tecnica da parte del consulente nominato dal Giudice, che dovrà verificare che il testo non abbia subito alterazioni;
- in alternativa, produrre copia forense dello stesso con annessa relazione tecnica periziata che attesti, in conformità con quanto disposto dalla legge 48/2008, la metodologia e strumentazione utilizzata per la copia forense, l’assenza di tracce di alterazione o manipolazione ai dati che dovranno essere utilizzati in Giudizio e i criteri con i quali sono stati estratti gli elementi probatori d’interesse
Evocativa, in proposito, la sentenza del Tribunale di Milano del 24/10/2017 est. Lombardi , secondo cui:
“In assenza della produzione dei supporti informatici contenenti le conversazioni [ndr messaggistica WhatsApp], onere processuale rafforzato dalla contestazione e dal formale disconoscimento delle stesse, non è possibile verificare giudizialmente la corrispondenza della documentazione prodotta rispetto agli effettivi contenuti a mezzo di consulenza tecnica, né supplire attraverso un ordine di produzione che, in considerazione delle preclusioni processuali, avrebbe natura esplorativa e surrogatoria di oneri processuali di parte inassolti”.