– a cura di Angelo Beretta – Gennaio 2020 –
Che Facebook e in generale i social media siano entrati nella vita di tutti non è una novità.
Parimenti, non sorprende il fatto che i commenti (negativi) espressi dai dipendenti sui social media nei confronti di colleghi, superiori e datori di lavoro in genere possano essere fonte e origine di procedimenti disciplinari. [Sul punto segnaliamo anche, su questo sito, “Il diritto di critica del lavoratore al tempo dei social”].
La nuova frontiera dell’attività ermeneutica è sempre più focalizzata a identificare quello che potremmo chiamare il “punto di rottura”: quando cioè la condotta tenuta da un dipendente sia tale da legittimare il procedimento espulsivo e quando invece legittimi esclusivamente una sanzione conservativa.
A tal proposito vi segnaliamo oggi l’interessante pronuncia (Tribunale di Nocera Inferiore 29/05/2019 n. 16075 est. De Angelis ) che ha affrontato il caso di un rappresentante sindacale aziendale che aveva commentato sul proprio profilo Facebook un provvedimento aziendale preso nei confronti di un collega qualificando il management aziendale con l’epiteto “che pezzi di m…”.
La Società, a seguito di specifica contestazione disciplinare e nonostante le scuse formali rivolte dal rappresentante sindacale, ha proceduto al licenziamento per giusta causa.
Il giudice, in primo luogo, ha evidenziato come nel caso di specie non si potesse parlare di attività ritorsiva nei confronti di un rappresentante sindacale che, nei giorni precedenti ai fatti oggetto di contestazione disciplinare, era stato parte attiva di incontri con la Società volti ad evitare la chiusura di un sito produttivo.
Infatti il lavoratore, con quel commento, aveva esternato esclusivamente un’opinione personale, priva di alcuna valenza sindacale.
Il Giudice ha poi proceduto ad esaminare la tematica della legittimità del provvedimento espulsivo comminato per giusta causa partendo da un principio espresso da una recente sentenza di legittimità (Cass . 14/05/2019 n. 12786 ) che si è intrattenuta sulla nozione di insubordinazione del dipendente, la quale si estenderebbe a qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale, per cui “la critica rivolta ai superiori può essere suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale dal momento che l’efficacia di questa riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i dirigenti”.
Il Giudice di merito ha quindi il compito di valutare se l’espressione utilizzata, così come le altre varie circostanze fattuali e lo strumento utilizzato per la condotta, appaia effettivamente suscettibile di arrecare un pregiudizio all’organizzazione aziendale, ovvero anche di arrecare un danno economico in termini di lesione all’immagine e alla reputazione commerciale del datore di lavoro.
Secondo la sentenza, nel caso di specie, l’espressione utilizzata dal lavoratore – per quanto “indubbiamente inurbana e inopportuna, oltre che non rispondente al canone di continenza formale che deve connotare il diritto di critica” e pertanto meritevole di sanzione disciplinare – non è stata considerata suscettibile di arrecare alcun significativo pregiudizio all’impresa datoriale e questo:
- sia sotto l’aspetto organizzativo: la società datrice di lavoro è particolarmente grande avendo svariati stabilimenti produttivi sul territorio nazionale;
- sia sotto l’aspetto produttivo e economico;
- sia infine sotto l’aspetto della lesione al decoro della società, visto che il commento era comunque rilevatore di una ingiustizia subita da un collega e pertanto privo di un evidente intento offensivo o aggressivo nei confronti dei vertici aziendali.
Inoltre si è rilevato che il dipendente, comunque provato dalle vicende aziendali che lo vedevano direttamente coinvolto anche sotto l’aspetto di patrono degli interessi sindacali degli altri lavoratori, si è prontamente scusato nelle giustificazioni scritte inoltrate successivamente alla contestazione disciplinare. Viene spontaneo il pensiero a un’altra recente sentenza (Cass. 03/12/2019 n. 31529) nella quale, in relazione a un caso di abbandono del posto di lavoro e di rifiuto di eseguire una disposizione impartita dal superiore gerarchico, i giudici avevano sottolineato la non particolare intensità dell’elemento soggettivo, configurandosi la condotta del lavoratore frutto del contesto di elevata conflittualità fra le parti, e l’assenza, da un punto di vista oggettivo, di ripercussioni dannose a carico della società.
Sempre con riguardo alla sentenza oggi segnalata, interessante è la considerazione per la quale la sanzione disciplinare non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva sul comportamento degli altri dipendenti, “dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente discrezionale, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimono i fatti contestati.
Infine il giudice ha considerato la condotta del lavoratore sussumibile negli addebiti che il contratto collettivo riconduce a sanzioni conservative. [Su questo aspetto si rinvia, su questo sito, a “Come incidono il contratto collettivo e il codice disciplinare sulle sanzioni in materia di licenziamento”]
Per quanto sopra la sanzione del licenziamento è stata ritenuta sproporzionata, con l’applicazione delle conseguenze di legge.