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– a cura di Filippo Capurro – Gennaio 2020 – 

1.

L’obbligo di repêchage è un principio di origine giurisprudenziale e si fonda sulla considerazione che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ossia per esubero –  è considerato legittimo solo se non esistono altre mansioni attribuibili al lavoratore eccedente. In altre parole il licenziamento deve essere l’extrema ratio, dovendo sempre essere preferita, laddove possibile, l’assegnazione al lavoratore di una posizione alternativa.

Per questo motivo il giudice analizza anche le assunzioni effettuate in un periodo ragionevolmente precedente e successivo al licenziamento, le quali possono costituire un indice dell’esistenza di mansioni disponibili non attribuite al lavoratore licenziando e quindi della violazione dell’obbligo di repêchage.

La giurisprudenza tuttavia ha concepito l’obbligo di repêchage nei limiti dell’assetto organizzativo del datore di lavoro, nella quale non sempre sono disponibili mansioni alternative da affidare al lavoratore licenziando, e quindi dando rilievo sia alle sue competenze (oggettive) sia alla libera organizzazione dell’impresa.

2. 

La prima sentenza che qui segnalo (Cass. 17/10/2019 n. 26460 ) riguarda la questione delle CONSEGUENZE SANZIONATORIE in caso di violazione dell’obbligo di repêchage.

(2.1) Una breve premessa di inquadramento della questione è opportuna.

Limitando l’indagine alle imprese che occupano più di quindici dipendenti, per le quali i rischi sanzionatori sono più rilevanti, le conseguenze della violazione dell’obbligo di repêchage sono diverse a seconda che il lavoratore sia stato assunto o meno con contratto a tutele crescenti.

Per i lavoratori ai quali si applica il Jobs Act, ossia assunti dopo il 07/03/2015, l’impianto della riforma limita la tutela contro l’illegittimo licenziamento economico a un indennizzo. Sicché in caso di violazione del repêchage – e salvo si aggiungano vizi più gravi – si avrà il mero indennizzo.

Per i lavoratori ai quali si applica la disciplina Fornero, ossia assunti fino al 07/03/2015, in un primo momento si era formato un orientamento che tendeva a escludere la tutela reintegratoria in favore di quella meramente indennitaria, sul presupposto che il repêchage non attenesse al “fatto posto a fondamento del licenziamento” (Trib. Milano 20/11/2012; Trib. Torino 05/04/2016; Trib. Genova 14/12/2013; Trib. Varese 04/09/2013; Trib. Roma 08/08/2013).

Successivamente si è consolidato un orientamento più rigoroso che prevede l’applicazione del della tutela reintegratoria (Cass. 02/05/2018 n. 10435, così come Cass. 17/10/2019 n. 26460 qui segnalata). Questa impostazione più severa si fonda sulla considerazione che, alla luce dell’articolo 18, comma 7, L. 300/1970, la reintegrazione nel posto di lavoro consegue alla “manifesta insussistenza del fatto”, che ricomprende tanto il requisito delle esigenze tecniche, produttive od organizzative alla base del recesso datoriale, quanto la verifica sulla possibilità di ricollocare altrove il lavoratore all’interno della struttura aziendale. 

(2.2) Secondo la sentenza qui segnalata, ai fini della reintegrazione non è sufficiente che il datore di lavoro, allo scopo di evitare il licenziamento, non abbia adeguatamente provato l’impossibilità di ricollocare il dipendente nella propria organizzazione, perché tale circostanza deve risultare in modo incontrovertibile ed essere facilmente riscontrabile.

In altre parole, perché possa operare la tutela reale, la violazione dell’obbligo di repêchage deve risultare in modo immediatamente evidente e facilmente dimostrabile, perché la semplice incompleta o insufficiente dimostrazione a carico del datore dà unicamente luogo alla tutela indennitaria (tra 12 e 24 mensilità). 

La Cassazione osserva, in altre parole, che la reintegrazione opera solo nel caso in cui sia riscontrato in modo evidente e facilmente verificabile che il fatto su cui poggia il motivo oggettivo di licenziamento, inclusa l’impossibile ricollocazione, appare manifestamente insussistente.

(2.3) Questa pronuncia, sulla cui solidità sistematica non intendo qui soffermarmi, ha un notevole rilievo pratico. Mi riferisco a quei casi in cui, in effetti, per la complessità dell’organizzazione aziendale e soprattutto dei profili professionali presenti, non sia effettivamente agevole valutare in modo immediato e incontestabile la violazione del repêchage.

3.

(3.1) La seconda sentenza che segnalo (Cass. 11/11/2019, n. 29099 ) riguarda il tema dell’ONERE DELLA PROVA sul repêchage in relazione a un aspetto complesso: l’ampiezza dell’obbligo di offrire una mansione disponibile di contenuto diverso da quella in esubero.

Va ricordato preliminarmente che, nonostante la questione abbia suscitato soluzioni contrastanti in giurisprudenza, deve oggi ritenersi che spetti al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente (si vedano Cass. 11/10/2016 n. 20436 e Cass. 22/03/2016 n. 5592).

Non mancano sentenze, risalenti e anche recenti, che affermano che il lavoratore debba almeno indicare le eventuali mansioni, già presenti nell’ambito dell’organizzazione aziendale, nelle quali egli avrebbe potuto essere utilmente impiegato in alternativa al recesso (Cass.10/05/2016 n. 9467).

(3.2) Tornando alla pronuncia qui segnalata, viene affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma altresì, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, ovviamente se esistenti.

L’art. 2103 c.c. deve infatti essere interpretato, secondo i giudici, alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto, senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento.

E’ infatti onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale, ove esistenti.

La necessità di un tale bilanciamento è, secondo i giudici, coerente con la ratio di numerosi interventi normativi [quali art. 7, comma 5 d.Lgs. n. 151/2001 (maternità); art. 1, comma 7 L. 68/1999 (collocamento obbligatorio); art. 4, comma 11, d.Lgs. n. 223/di 1991 (licenziamenti collettivi)].

(3.3) La sentenza, in un passaggio che appare parzialmente contraddittorio con la premessa sopra esposta, esclude la necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

La contraddittorietà sta nel fatto che da un lato si dice che il datore di lavoro deve prospettare la mansione inferiore ottenendone il consenso e dall’altro che non occorre un patto (di demansionamento).

(3.4) A mio avviso la questione ha tratti di complessità che vanno sciolti nel modo che segue.

Anzitutto va osservato che la pronuncia appena segnalata affronta una fattispecie del 2014 e quindi anteriore alla riforma della norma sulle mansioni (art. 2103 c.c.) avvenuta nel 2015 con uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act. Ciò non la rende del tutto anacronistica sia perché l’obbligo di repechage era già ampiamente presente all’epoca, sia per il fatto che la disciplina delle mansioni, sia pure più severa dell’attuale, ammetteva in via interpretativa la possibilità di evitare il licenziamento mediante l’assegnazione di mansioni inferiori.

Vero è però che il nuovo art. 2103 c.c. non può assolutamente essere trascurato nell’approccio al problema che qui stiamo trattando. Alla stregua della stessa, vi dico come tecnicamente, a mio giudizio, andrebbe affrontato il problema.

a) Se il datore di lavoro ha a disposizione un posto con mansioni appartenenti allo stesso livello e categoria legale, esso deve essere attribuito al lavoratore in via preferenziale al recesso e quindi senza dar corso ad alcun licenziamento e senza ottenere alcun consenso.

b) Se le mansioni disponibili appartengono a un livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (rif. art. 2103, comma 2, c.c.), una soluzione sistematica impone che la manovra sia la stessa e che la loro assegnazione avvenga senz’altro al posto del recesso e senza consenso.

L’esubero deriva infatti, direttamente o indirettamente, da una modifica degli  assetti  organizzativi  aziendali  che incide  sulla  posizione del lavoratore circostanza che, per legge (art. 2103, comma 2 c.c.), legittima l’assegnazione di mansioni di un livello inferiore.

c) Diverso è infine il caso in cui le mansioni disponibili siano tali (per categoria, o salti di più di un livello) da esulare dai casi precedentemente esaminati.

Qui, prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro ha l’obbligo di proporre – se esiste – il posto al lavoratore e di ottenerne il consenso. Eloquente sul punto è l’art. 2013, comma 6, c.c. secondo il quale:

“Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.”

(3.5) Un’ottima sede per formulare l’offerta della mansione inferiore è la comparizione avanti all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, nell’ambito della procedura di licenziamento prevista per gli assunti ante Jobs Act da imprese con più di 15 dipendenti (art. 7, L. 604/1966, come modificato dalla L. 92/2012).

L’offerta potrà essere formalizzata a verbale in quella sede e l’eventuale rifiuto del lavoratore costituirà una prova idonea dell’assolvimento dell’onere di repêchage. 

In caso di accettazione della nuova mansione, invece, il verbale di accordo sarà  prova della legittima assegnazione di mansioni inferiori in quanto incarnerà i requisiti sopra richiamati di cui all’art. 2103, comma 6, c.c..

Scarica Cass. 17 ottobre 2019 n. 26460

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Scarica Cass. 11 novembre 2019, n. 29099

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