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– a cura di Filippo Capurro – Gennaio 2020 – 

1.

La sentenza che segnalo oggi (Corte d’Appello di Milano 02/09/2019 Pres. Rel. Picciau), ha affrontato la questione del patto di non concorrenza apposto a un contratto di lavoro subordinato, contenente un DIRITTO DI OPZIONE a favore del datore di lavoro.

La questione ha una importanza pratica rilevante poiché, nella sostanza, attribuisce al datore di lavoro la facoltà di decidere se “perfezionare” o meno il patto di non concorrenza, a seconda delle valutazioni di opportunità che potrà svolgere fino al momento della cessazione del rapporto, così assumendo o meno i relativi oneri economici del corrispettivo. 

2.

Il patto di non concorrenza, nel rapporto di lavoro subordinato, è disciplinato dall’art. 2125 c.c. che recita:

“Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto , se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.”.

Il patto di opzione è invece regolato dall’art. 1331 cod. civ. il quale prevede che:

“Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’articolo 1329 (1).

Se per l’accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice.”

3.

L’analisi della Corte d’Appello di Milano muove dalla richiesta di un dipendente che, dopo aver rassegnato le dimissioni, ha fatto ricorso per ottenere il riconoscimento del corrispettivo relativo al patto di non concorrenza, operante – secondo la tesi del dipendente – fin dalla instaurazione del rapporto di lavoro, a nulla rilevando il fatto che vi fosse un’opzione apposta al patto e che tale opzione non fosse stata esercitata dal datore di lavoro.

La Corte d’Appello ha evidenziato le differenze strutturali tra il diritto di opzione e il diritto di recesso e, aderendo ai precedenti della Suprema Corte, ha ritenuto validamente assoggettato il patto di non concorrenza a un diritto di opzione.

Nella pronuncia si legge:

“l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta”.

E inoltre, secondo la Corte, va notato che:

(…) l’opzione dà luogo ad una proposta irrevocabile cui corrisponde una facoltà di accettazione, e non ad un contratto perfetto condizionato; in conseguenza il negozio, che sorge da un rapporto originariamente in fieri, si perfeziona nello stesso momento in cui la parte manifesta la sua volontà di esercitare il suo diritto di opzione, e non può spiegare i suoi effetti se non da tale momento”.

Siamo dunque in presenza di una fattispecie contrattuale a formazione progressiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità della proposta del promittente (in questo caso il lavoratore), e, successivamente, dalla eventuale accettazione del promissario (in questo caso il datore di lavoro) che, saldandosi con la precedente proposta, perfeziona il nuovo negozio giuridico. 

4.

Sulla specifica questione, oltre alla sentenza qui segnalata, ammette il patto di opzione, tra le altre, Cass. 12/06/2014 n. 13352.

In senso contrario Cass. 04/04/2017 n. 8715 particolarmente interessante perché contestualizza gli effetti sostanziali del patto di opzione nell’ambito del rapporto di lavoro. In essa si legge:

“(…) l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro subordinato e prosegue nei trenta giorni successivi alla cessazione del rapporto, impedendo al lavoratore stesso di esercitare il suo diritto di scelta di ulteriori occasioni di lavoro (e ciò anche durante il periodo di preavviso, previsto dal legislatore – in caso di licenziamento – proprio a tutela della parte che subisce il recesso al fine di cercare un altro contraente). Si realizza, anche sotto tale aspetto, la violazione del modello contrattuale dell’opzione in quanto: 1) mentre la parte vincolata all’opzione (ossia alla propria dichiarazione) non è tenuta – nella struttura tipica prevista dall’ordinamento – alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale, 2) nella presente fattispecie, invece, il lavoratore concedente l’opzione è obbligato immediatamente, sin dalla stipulazione del patto di opzione (ossia sin dalla data di stipulazione del contratto di lavoro subordinato) non solo a mantenere ferma la dichiarazione ma anche ad adempiere all’obbligazione finale (….)”.

Interessante è anche Cass. 02/01/2018 n. 3, che afferma che è nulla la clausola di opzione ex art. 1331 c.c. quando tale clausola cela l’intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione, una volta superato il periodo di prova, all’adempimento dell’obbligazione contenuta nel patto stesso. In tal caso, l’esercizio della facoltà impropriamente denominata di opzione costituisce un recesso unilaterale la cui disciplina non è applicabile al patto di non concorrenza, che integra una disposizione speciale con obbligo a carico del lavoratore da circoscriversi ex ante ad una durata determinata, disposizione inderogabile, altrimenti elusa dalla facoltà di recesso, che consentirebbe il venir meno in ogni momento della sua durata.

Tuttavia dalle menzionate sentenze, benché non detto espressamente, sembra ammettersi la clausola di opzione in presenza di un effettivo corrispettivo a vantaggio del lavoratore, che a mio avviso potrebbe anche non avere carattere strettamente economico.

5.

Varianti dell’opzione è la previsione di un diritto di RECESSO a favore del datore di lavoro, ossia di una clausola che consenta allo stesso di recedere dal patto di non concorrenza, dispensando pertanto il lavoratore dal rispetto degli obblighi di non concorrenza e al contempo esonerando il datore di lavoro dal pagarne il corrispettivo.

La giurisprudenza è stata nel tempo oscillante sulla legittimità del diritto di recesso.

Perloppiù si tende ormai a ritenerla nulla per violazione di una norma imperativa, individuata attraverso l’interpretazione dell’art. 2125 c.c., alla luce degli artt. 4 e 35 Cost., dai quali conseguirebbe un “diritto alla certezza”, che deve essere riconosciuto al lavoratore, a bilanciamento della “grave ed eccezionale limitazione alla libertà d’impiego delle energie lavorative” (Cass. 08/01/2013, n. 212).

In altre parole non è ammesso, da una parte, che sia attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la fissazione di un termine certo, dall’altra, impedisce che l’attribuzione patrimoniale pattuita possa venir meno per volontà unilaterale del datore di lavoro.

Analogamente Trib. Milano 03/05/2005, est. Frattin (in Orient. Giur. Lav. 2005, 315) precisa che è nulla clausola che consente alla società datrice di lavoro di recedere dal patto di non concorrenza fino all’ultimo giorno di durata del rapporto di lavoro poiché tale clausola, se azionata, consentirebbe all’azienda di ottenere tutti i benefici del patto senza pagarne il corrispettivo, poiché il lavoratore sarebbe costretto a decidere della propria carriera presupponendo il vigore del patto salvo poi trovarselo – a cose fatte – annullato.

6.

Ora, mi sia consentita un’osservazione in libertà.

A me pare che ammettere l’opzione e non il recesso sia a dir poco contraddittorio poiché, indipendentemente dalla morfologia e dal funzionamento dei due istituti, gli effetti sono esattamente gli stessi.

Infatti, se un lavoratore riceve un offerta di lavoro da un concorrente del proprio datore di lavoro, deve poter sapere se poterla accettare o meno.

Se la rifiuta a motivo del patto di non concorrenza, è irrilevante che questo rifiuto sia determinato dal fatto che egli “è” o invece che “potrebbe essere” vincolato da un patto di non concorrenza. Il rifiuto c’è e il danno per il lavoratore pure. Per non parlare dell’ipotesi di una catena di rifiuti seguiti poi dal recesso dal patto di non concorrenza o dal mancato esercizio del diritto di opzione, che determinerebbe la situazione di un lavoratore che ha avuto diversi oneri e svantaggi correlati al pnc e nessun corrispettivo.

L’unico modo per dare un equilibrio ed evitare che l’opzione sia usata in frode alla legge, ossia per aggirare i limiti del divieto (giurisprudenziale) di recesso, è a mio avviso quello, non solo di attribuire un corrispettivo a favore del lavoratore, ma di fissare un termine per l’esercizio dell’opzione, che però sia attivabile dal lavoratore. Quest’ultimo infatti deve essere messo nella condizione, a domanda, di sapere, entro un termine congruo, se il patto di non concorrenza opererà o meno, per sapersi giustamente regolare in relazione alle proprie scelte di lavoro e quindi di vita.

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