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– di Filippo Capurro – Maggio 2018 © RIPRODUZIONE RISERVATA a “HR online”

Come sappiamo il Jobs Act è intervenuto anche sulla disciplina dei licenziamenti. Il d.lgs. 23/2015 rubricato come “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti , in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” ha alleggerito certamente l’apparato sanzionatorio avverso i licenziamenti illegittimi.

Di questa disciplina si è molto scritto e parlato; vorrei qui concentrare l’attenzione su due aspetti interessati da significative evoluzioni interpretative, e precisamente: a) la questione dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, e b) quella delle conseguenze dei vizi della procedura disciplinare.

a) L’ insussistenza del “fatto materiale” posto a base del licenziamento

Fatto materiale e fatto giuridico

Nei contratti a tutele crescenti, che sono sostanzialmente quelli stipulati dal 07/03/2015, l’impalcatura delle tutele avverso il licenziamento illegittimo irrogato per motivi soggettivi, nell’ambito di imprese con oltre 15 dipendenti, sono sostanzialmente di tre tipi:

  1. La tutela reintegratoria piena, consistente sostanzialmente nella reintegrazione tradizionale, è prevista per i casi di licenziamento discriminatorio o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, oppure per il licen-ziamento orale.
  2. La tutela reintegratoria attenuata è prevista nelle ipotesi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (con esclusione comunque di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento).
  3. La tutela indennitaria, in tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo.

[Immagini realizzate da Alessandro Locati –  Alessandro Locati ArtWorks]

L’ipotesi di insussistenza del fatto materiale contestato, di cui al precedente punto “2.”, comporta conseguenze assai pesanti per il datore di lavoro.

Infatti la tutela reintegratoria attenuata consiste in una pronuncia nella quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione (dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro). In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Ma cosa si intende per “insussistenza del fatto materiale contestato”?

La questione è più complessa di quanto sembri.

Per i lavoratori assunti fino al 07/03/2017, il famoso art. 18 L. 300/1970(1)  prevede (al comma 4) una forma di tutela reintegratoria nel caso in cui il giudice accerti la mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo “per insussistenza del fatto contestato”.

La giurisprudenza(2) formatasi su questa norma ha costantemente ritenuto che sia ha insussistenza del fatto contestato, non solo quando il fatto manchi, ma altresì quando esso sussista ma non abbia alcuna valenza antigiuridica.

Un esempio potrebbe essere il seguente: il lavoratore viene licenziato perché non ha espresso le proprie condoglianze a un collega per un lutto dallo stesso subito. In questo caso il fatto storico sussiste, ma non rappresenta in alcun modo un inadempimento contrattuale in quanto il cordoglio non fa parte delle obbligazioni lavorative.

Come si è detto, anche il Jobs Act ha utilizzato il concetto di “fatto contestato” ma ha aggiunto a tale concetto il termine “materiale”,con l’evidente intenzione di evitare che il giudice potesse spingersi a effettuare valutazioni sull’antigiuridicità del fatto stesso.

Ma è bastato ciò per raggiungere questo obiettivo e a limitare l’ambito di valutazione del giudice? Sembrerebbe di no!

Infatti alcune recenti pronunce(3) hanno stabilito che anche la nozione di “fatto materiale” non possa essere scevra da un nucleo insopprimibile di giuridicità, intesa nel senso di necessaria illiceità del comportamento addebitato al lavoratore e sul quale si fonda il licenziamento.

Quindi attenzione a che la contestazione riguardi condotte che contengano comunque un’inadempimento da parte del lavoratore.

L’onere della prova del fatto materiale

Un’altro aspetto interessante relativo al “fatto materiale” è stato affrontato dalla pri-ma delle sentenze citate nella precedente nota n. 3 e riguarda l’onere della prova.

E’ stato infatti affermato che la norma che afferma che l’insussistenza del fatto mate-riale debba essere “direttamente dimostrata in giudizio”(4) – e che ha fatto sorgere la questione se l’onere della prova dell’assenza del fatto contestato incomba sul lavora-tore o sul datore di lavoro – va interpretata nel senso che è sempre il datore di lavoro a dover fornire la prova positiva della sussistenza del fatto materiale contestato, per cui, in difetto di tale prova, il fatto stesso è da ritenersi insussistente, non avendo la nuova disciplina derogato ai principi probatori di cui alle regole generali in materia di licenziamenti(5).

b) La conseguenze dei vizi della procedura disciplinare

La seconda questione riguarda invece le implicazioni di una contestazione disciplinare viziata perché del tutto assente o anche solamente perché tardiva; in entrambi i casi in violazione dello Statuto dei Lavoratori(6).

La questione, a prima vista, sembrerebbe risolta dalla norma del Jobs Act(7) che prevede che il licenziamenti irrogati (solamente) “in violazione della procedura” disciplinare vengono sanzionati con una mera tutela indennitaria, peraltro ancora più tenue – in quanto dimezzata – di quella sopra menzionata al punto 3.

Ma le cose purtroppo quasi mai sono semplici!

Infatti diverse pronunce evidenziano che alcuni vizi della procedura disciplinari comportano conseguenze ben più serie.

La completa assenza della procedura disciplinare

Una interessante recente pronuncia(8) ha affrontato il caso in cui la contestazione disciplinare sia stata integralmente omessa dal datore di lavoro.

Il giudice ha affermato che tale carenza costituirebbe un elemento integrante l’insussistenza del fatto materiale. Più precisamente, “l’omessa contestazione degli addebiti, infatti, lungi dal costituire un mero vizio formale o procedurale, incide sulla stessa sussistenza del fatto (…)”

Ci troveremmo dunque di fronte a un’ipotesi di insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, con le pesanti conseguenze (reintegratorie) sopra descritte.

La mancanza del requisito dell’immediatezza

Una recente sentenza delle Sezioni Unite(9), seppur affrontando le conseguenze sanzionatorie del licenziamento disciplinare privo di tempestività nell’ambito di applicazione dell’art. 18 SL (e quindi pre Jobs Act), attribuisce rilevanza centrale al requisito dell’immediatezza.

In particolare Le Sezioni Unite affermano che, in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile(10).

Una sentenza del Tribunale di Milano(11) è stata altrettanto eloquente, affermando che il principio di immediatezza non ha solo un rilievo soggettivo, posto a salvaguardia dei diritti di difesa del lavoratore: esso partecipa, altresì (e soprattutto) di una rilevanza prettamente oggettiva, che è correlata all’esigenza di assicurare la genuinità dell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro ed evitare, così, che la pendenza di una determinata questione possa essere utilizzata in modo distorto con finalità ritorsive. D’altronde, secondo il giudice, la mancata immediatezza minerebbe l’effettività del potere disciplinare, e farebbe venire meno la giusta causa, anche perché il lasso di tempo trascorso tra il fatto commesso e il licenziamento mal si concilia con la perdita di fiducia.

Quindi massima attenzione anche alla procedura disciplinare nei licenziamenti per motivi soggettivi.

Note:

(1) Come riformato nel 2012 dalla Legge Fornero (L. 92/2012).

(2) Cass. 13/10/2015, n. 20540 e 20545.

(3) Corte d’Appello di L’Aquila 14/12/2017 – Pres. Sannite, Rel. Santini; Tribunale di Firenze 07/02/2018 n. 98, est. Davia e Trib. Monza 26/10/2017 n. 452 est. Stefanizzi.

(4) Art. 3, comma 2, d.lgs. 25/2015.

(5) Ma in senso contrario si veda Trib. di Napoli 27/06/2017 n. 26399.

(6) Art. 7, L. 300/1970, come integrata dai C.C.N.L..

(7) Art. 4, d.lgs. 25/2015.

(8) Tribunale di Firenze 7 febbraio 2018 n. 98, est. Davia.

(9) Cass. SS. UU. 27/12/2017 n. 30985.

(10) Talmente significativa è questa esigenza che le Sezioni Unite fanno discendere da una tale violazione non già la c.d. tutela economica affievolita di cui all’art. 18, comma 6 SL ma quella c.d. economica forte di cui all’art. 18, comma 5.

(11) Trib. Milano, 01/07/2016 est. Colosimo.

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