ScaricaStampa

– a cura di Filippo Capurro e Angelo Beretta– Novembre 2019 – 

1. Introduzione sulla ritorsione e quadro normativo

Pubblichiamo una sentenza (Trib. Milano 16/11/2019 n. 2043 est. Capelli ) relativa a un caso seguito dal nostro Studio, a tutela di un dirigente licenziato.

Nella fase sommaria del giudizio (trattavasi infatti di Rito Fornero) il giudice aveva rigettato la nostra domanda volta ad accertare l’esistenza di un licenziamento ritorsivo; a seguito della fase di opposizione a cognizione piena, il giudice – dopo aver acquisito ulteriori elementi nel corso della istruttoria testimoniale – ha revocato la precedente ordinanza, riconoscendo le ragioni del nostro assistito, nell’ambito di una sentenza molto completa e approfondita.

L’aspetto interessante del caso è l’applicazione al dirigente di una forma di tutela sanzionatoria raramente applicata ai dirigenti, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno.

Ciò è stato possibile mediante l’applicazione dell’art. 18, comma 1, L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) che recita:

“Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché (…) o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. (…)”. 

Tale norma è applicabile a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato, compresi i dirigenti, i quali, diversamente, disporrebbero solamente di una tutela più contenuta contro i licenziamenti, essenzialmente economica, prevista dai contratti collettivi.

La ritorsione consiste nell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore e/o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione.

Affinché la tutela reintegratoria sia applicata è però necessario che la ritorsione sia il motivo esclusivo del licenziamento e quindi occorre che sia accertato, oltre al motivo di ritorsione, che non vi è alcun altro (legittimo) requisito causale a sostegno di esso.

Non va invece confusa con la ritorsione la discriminazione che si ha quando l’atto giuridico è ispirato da motivi di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del dipendente. Le regole delle cause di discriminazione sono molto diverse e non formano oggetto di queste riflessioni.

2. Il nostro caso

(2.1.) La vicenda

In causa avevamo dedotto che il recesso fosse stato determinato dal clima conflittuale esistente tra il nostro assistito, unitamente ad altri colleghi dirigenti, e l’Amministratore Delegato, nonché azionista di spicco, della Banca. 

In particolare, il clima conflittuale si era determinato per due diverse ragioni:

i) L’esplicitazione formale del dirigente – unitamente agli altri colleghi – tutti colpiti con drastiche misure dalla Banca – della volontà di ottenere quanto più volte richiesto in merito alla valutazione delle quote del Piano Incentivante; 

ii) la fermezza mostrata nell’insistere – unitamente ad altra dirigente – nella corretta valutazione delle stime degli interessi di mora da inserire in bilancio della Banca (stime sensibilmente inferiori rispetto a quelle caldeggiate da parte dell’Amministratore Delegato). 

(2.2.) L’onere della prova

Il giudice ha affrontato anzitutto il tema dell’onere della prova ricordando quanto specificato dalla Cassazione secondo la quale:

“l’onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere, con sufficiente certezza, l’intento di rappresaglia (dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento legittimo) …” (Cass 10047/2004). 

Il giudice evidenzia inoltre che la Cassazione riconosce, però, che la natura ritorsiva può essere desunta anche da semplici presunzioni.

In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato che “trattasi di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni e sempre in tema di prova ha specificato che “un ruolo non secondario è dato dalla “dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (Cass. 08 agosto 2011, n. 17087). 

In una recente pronuncia la Suprema Corte ha inoltre precisato che quello del lavoratore è un onere di prova successivo: in quanto anche il datore di lavoro deve provare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo posto alla base del recesso (Cass.17/10/2018, n. 26035 e Cass. 14/03/2013, n. 6501).

Nella motivazione si legge: “Sul punto questa Corte ha affermato come “L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, L. n. 604 del 1966, ex art. 5, l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante (l’intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso” (Cass. 6501/2013 e Cass. 23149/2016).

Ai fini della valutazione della ritorsività del recesso, seppur il licenziamento illegittimo e quello ritorsivo siano fattispecie distinte, ben può il giudice di merito valorizzare tutti gli elementi acquisiti, inclusi quelli già valutati per escludere il giustificato motivo oggettivo, ove tali elementi, da soli o in concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale, consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. 23 settembre 2019, n. 23583).

In sintesi, il fatto che il datore di lavoro non riesca a provare l’esistenza della motivazione addotta nel licenziamento, costituisce un motivo in base al quale il Giudice può ritenere utile a rafforzare l’esistenza di un motivo ritorsivo. 

(2.3)  Gli indici di ritorsività nel caso specifico

Nel nostro caso il giudice, dopo un’accurata attività istruttoria, ha ritenuto di poter ricavare la ritorsività:

  1. Dalla contestualità del licenziamento intimato ai due dirigenti: il ricorrente e una collega. Infatti, sono stati licenziati lo stesso giorno, anche se con motivazioni differenti, il primo per giustificato motivo oggettivo, la seconda per giusta causa;
  2. dalle modalità con le quali sono stati licenziati: entrambi infatti lo stesso giorno, alla stessa ora, sono stati accompagnati all’uscita, con richiesta di lasciare immediatamente i beni aziendali di cui avevano la disponibilità d’uso (telefono e sim aziendale), impediti – anche il ricorrente licenziato per una asserita giustificatezza oggettiva – di salutare i colleghi e senza che il recesso, per quanto riguarda il ricorrente, sia stato preceduto da un comunicato ufficiale circa le ragioni della conclusione del rapporto per avvenuta riorganizzazione, circostanze queste, non contestate e che sono confermate dalla documentazione in atti; 
  3. dal fatto che successivamente all’invio della lettera volta a ottenere quanto più volte richiesto in merito alla valutazione delle quote del Piano incentivante, quasi tutti i dirigenti firmatari della stessa siano stati allontanati dalla banca, anche se per circostanze diverse: fatto, in ogni caso, indicativo di una frattura con i firmatari; 
  4. dal fatto che la Banca non abbia voluto rilasciare al ricorrente l’attestazione di good leaver, come proposto anche in sede conciliativa dallo stesso dirigente, il quale ha dichiarato di accettare a definizione della controversia anche una somma significativamente inferiore a quella offerta dalla Banca a fronte di detta attestazione.  Il mancato rilascio di detta attestazione – come già rilevato nella ordinanza impugnata – non risultava comprensibile a fronte di un licenziamento intimato per una dedotta riorganizzazione. 

(2.4) Il motivo (formale) del recesso

Anche su questo punto la più approfondita istruttoria svolta in sede di opposizione, ha rivelato la fittizietà delle ragioni poste a fondamento del recesso. 

A fronte della contestazione della strumentalità della dedotta riorganizzazione, la Banca non aveva fornito prova del giustificato motivo addotto a fondamento del recesso. 

Il giudice ha confermato l’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte per cui le scelte organizzative non possono essere oggetto di valutazione in sede giudiziale attenendo alla libertà di iniziativa economica dell’imprenditore. Il datore di lavoro ha però l’onere di dimostrare l’effettività della riorganizzazione. Questo passaggio  passa anche dalla dimostrazione pratica di quali siano state le effettive ricadute pratiche della dedotta riorganizzazione organizzativa posta a base del recesso.

In assenza di questa prova, la riorganizzazione risulta essere fittizia e finalizzata unicamente all’allontanamento del dirigente. 

3. Qualche precedente

Segnaliamo un altro caso che abbiamo seguito di recente, affrontato nella sentenza Tribunale di Milano 10 aprile 2018, est. Tomasi, oggetto di un contributo su questo sito (“Licenziamento del dirigente per ritorsione e reintegrazione nel posto di lavoro: un nostro caso”).

In quel caso il licenziamento è stato accertato come l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento di altro lavoratore legata al dirigente licenziato e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni.

In giurisprudenza la ritorsione è stata ritenuta sussistente quale reazione a una serie di legittimi comportamenti del lavoratore. Per fare qualche esempio:

  • lunga malattia;
  • querela del lavoratore al datore di lavoro;
  • richiesta di livello superiore;
  • richieste retributive;
  • rifiuto di accettare mansioni inferiori
  • rifiuto di aderire alla cessione del contratto a altro datore di lavoro;
  • licenziamento di dirigente che avare assunto il soggetto poi licenziato nell’ambito di epurazione interna.

Auspichiamo di riuscire un giorno a fare una rassegna di giurisprudenza con specifici richiami.

Scarica Trib. Milano 16 novembre 2019 n. 2043 est. Capelli

ImmaginePDF