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– a cura di Filippo Capurro – Giugno 2019 –

1.

L’art. 2110 del codice civile dispone che, in caso di malattia (oltre che di infortunio, gravidanza o puerperio), il rapporto di lavoro viene sospeso e che il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore malato se non sia scaduto il termine di conservazione del posto (cosiddetto periodo di comporto) previsto dai contratti collettivi o, in mancanza, dagli usi o secondo equità. 

In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato salvo che la malattia si protragga oltre detti termini.

2.

La sentenza che segnalo oggi (Cass SS.UU. 22/05/2018 n. 12568) è stata emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e, come tale, è destinata in modo particolare a orientare i giudici sulla materia.

Viene affermato che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, prima del superamento del periodo massimo di comporto, sia nullo per violazione della norma imperativa prevista dall’articolo 2110 c.c..

In particolare significativi sono alcuni passaggi della sentenza:

“Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per  superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi – invece – considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita.

Al contrario (…) il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.”

3.

Qual’è la rilevanza pratica di questo principio?

Per i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (quelli assunti fino al 07/03/2015 da imprese con oltre 15 dipendenti), la cosa è abbastanza irrilevante. Infatti il comma 7 di tale norma stabilisce che in caso di licenziamento irrogato in violazione dell’art. 2110 c.c., e quindi prima del superamento del periodo di comporto, si applica la c.d. tutela reintegratoria attenuata. Essa consiste nella reintegrazione del lavoratore e nella condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.

Per quanto invece riguarda i lavoratori soggetti alle regole del d.lgs 23/2015 (sui c.d. contratti a tutele crescenti) e quindi assunti a far data dal 7 marzo 2015, nulla è espressamente stabilito in relazione a tale vizio del licenziamento. Pertanto – almeno a prima vista – questo tipo di licenziamento parrebbe rientrare nell’ambito di quelli ingiustificati, con conseguente condanna del datore alla sola sanzione indennitaria (da 6 a 36 mensilità di retribuzione), ai sensi dell’art. 3, comma 1 d.lgs 23/2015.

A me sembra tuttavia che, se il licenziamento in questione è nullo,  la conseguenza dovrebbe essere invece l’applicazione del regime dell’art. 2, comma 1, d.lgs 23/2015 che prevede la tutela reintegratoria.

In particolare questa norma recita: “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. (…)”. A tale tutela si aggiunge poi il risarcimento del dano di cui al comma 2.

Nè questa mia considerazione mi parrebbe ostacolata dal fatto che, come si è detto, per i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 L. 300/1970, l’analogo vizio non è ricondotto nel comma 1 che sanziona le nullità, ma è inserito nel comma 7 che sanziona altri vizi. Dice infatti la sentenza che: “All’affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l’avere il vigente testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012) collocato la violazione dell’art. 2112, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno. Infatti, in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta ,nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge.”

4.

E si noti che questa forma di tutela per i contratti a tutele crescenti si applica indipendentemente dal requisito occupazionale del datore di lavoro. Quindi, in caso di licenziamento nullo in quanto intimato prima del superamento del periodo di comporto, avremmo la sanzione della reintegrazione anche per le aziende che occupano fino a quindici dipendenti.

5.

Infine faccio presente una notazione della sentenza molto importante sul piano pratico per il datore di lavoro circa la possibilità di irrogare un nuovo licenziamento una volta superato il periodo di comporto, anche se ne era stato irrogato uno nullo prima. Si legge infatti nella sentenza: “Né un’eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva – errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo – impedisce che il licenziamento, nullo, possa poi essere tempestivamente rinnovato una volta che le assenze del lavoratore effettivamente superino il termine massimo di conservazione del posto di lavoro.”

Scarica Cass SS.UU. 22/05/2018 n. 12568

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