Cass. 24 novembre 2016 n. 24029
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
La Suprema Corte ha stabilito che non si configura il cd. mobbing nel caso in cui il lavoratore è costretto a una forzosa inattività legata alla riorganizzazione aziendale che coinvolge l’intera unità produttiva e non solo la sua posizione.
È stata così confermata la decisione della Corte territoriale, che “ha escluso l’asserito inadempimento colpevole della società evidenziando che il processo di riorganizzazione aveva riguardato non la sola posizione lavorativa del ricorrente bensì l’intera unità produttiva, la riduzione del personale era stata attuata collocando in mobilità tutti i dipendenti che a ciò avevano prestato adesione, la società aveva prospettato al lavoratore due proposte lavorative alternative, entrambe rifiutate e l’invito a fruire delle ferie non manifestava alcun intento persecutorio ma trovava giustificazione nella necessità di ricercare nel frattempo le soluzioni”.