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– a cura di Filippo Capurro – Marzo 2019 –

La sentenza qui segnalata (Tribunale di Bologna 23/01/2019 ord. est. Cosentino) muove da un caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto.

A fronte delle allegazioni di parte ricorrente il Tribunale ha ritenuto configurato il nesso di causalità – in termini di altissima probabilità – fra le gravi condizioni di salute del ricorrente  e l’ambiente di lavoro.

Sarebbe in realtà bastato questo per generare quale giuridica conseguenza  l’applicazione della c.d. tutela reintegratoria attenuata, prevista dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell’art. 18, L. 300/1870. Infatti, per comune insegnamento di giurisprudenza, non è legittimamente configurato il superamento del periodo di comporto, di cui all’art. 2110 c.c., nel caso in cui la malattia (o l’infortunio), che ha generato l’assenza, sia imputabile a un inadempimento datoriale.

Il Giudice tuttavia fa un ulteriore passaggio –  sebbene con un salto argomentato abbastanza spinto – ritenendo che il licenziamento dissimulasse un intento discriminatorio con conseguente applicazione dell’art. 18, comma 1, Stat. Lav. (c.d. tutela reintegratoria piena).

L’argomentazione è ispirata al giudice da una diversa pronuncia, richiamata verbatim in motivazione, che riguardava il licenziamento di un disabile e nella quale era stata affermata l’oggettiva idoneità del licenziamento a discriminare il lavoratore in considerazione delle sue condizioni di salute particolarmente gravi. 

Ricorda il giudice che il d.Lgs. n. 216/2003 – che ha recepito la direttiva comunitaria 2000/78 – vieta le discriminazioni e chiarisce che la discriminazione può essere sia diretta, quando una persona viene posta in una situazione meno favorevole di un’altra, che indiretta, quando l’adozione di un criterio “apparentemente neutro” finisce per porre alcuni in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. Osserva inoltre il giudice che la direttiva e il decreto di recepimento hanno superato la nozione soggettiva di discriminazione. Così non è necessario dimostrare che il datore di lavoro voleva effettivamente nuocere al disabile, per sanzionare tutti i comportamenti che pongono l’invalido in una situazione oggettiva di svantaggio a causa della sua invalidità.

Altresì viene rilevato che sia il diritto dell’Unione sia la CEDU riconoscono che la discriminazione può derivare non solo dal trattamento diverso di persone che si trovano in a situazione analoga, ma anche da un medesimo trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni diverse. In quest’ultimo caso si tratta di discriminazione “indiretta’ in quanto la differenza non risiede tanto nel trattamento, quanto piuttosto negli effetti che esso produce, che sono percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti.

Colgo l’occasione per richiamare due precedenti in materia di discriminazione e condizioni di salute.

La prima è Trib. Roma 12 marzo 2018 n. 1885 est. Buonassisi.

Il Tribunale, in quel caso, ha riformato l’ordinanza emessa nella prima fase del Rito Fornero e ha affermato come il licenziamento, formalmente disposto per ragioni organizzative di carattere oggettivo, era “ispirato all’esigenza di allontanare dall’azienda un dipendente, ritenuto ormai improduttivo, evidentemente non “più gradito” in ragione dei suoi problemi di salute”. Come tale esso era nullo poiché intimato al fine di eludere la normativa posta a tutela del diritto alla conservazione del posto del lavoratore assente per malattia. 

Nella specie erano state rilevate assenze di pochi giorni per malattia reiterate, soprattutto di lunedì, a inizio turno senza preavviso, con danni organizzativi. Episodi mai contestati disciplinarmente e mai messi in dubbio circa la veridicità. 

Si concretava dunque, secondo il giudice, una situazione di discriminazione in relazione alla quale non era necessaria la prova della volontà illecita del datore, né di un motivo illecito, esclusivo e determinante. 

Altra interessante pronuncia sul tema è Cassazione 27/09/2018 n. 23338 la quale trae origine dal giudizio avviato da una lavoratrice che, licenziata per giustificato motivo oggettivo al rientro da una lunga assenza per malattia, ha visto in primo grado accolta la propria domanda di nullità del licenziamento, asseritamente determinato dal motivo illecito della discriminazione nei confronti di un soggetto affetto da grave patologia. 

Nella specie la Suprema Corte, parzialmente confermando la sentenza d’appello che aveva riformato la prima pronuncia, ha escluso la configurabilità di una condotta discriminatoria in forza della dimostrata necessità di riduzione del personale di un’unità e del divieto di recesso nei confronti dell’unica altra dipendente ex art. 54, comma 9, del d.lgs. n. 151 del 2001.

In materia di prova, afferma la Corte, che in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso.

Scarica Tribunale di Bologna 23 gennaio 2019 ord. est. Cosentino

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