Nell’era digitale parte delle nostre interazioni con il mondo esterno avvengono sui social.
Così capita che il tempo faccia aumentare confidenza e disinvoltura e un po’ perdere il senso del limite nelle nostre esternazioni.
Quando ciò accade al lavoratore che critica sui social il datore di lavoro, la questione può diventare scottante.
Così, per il Tribunale di Busto Arsizio (scarica in fondo all’articolo) sono sufficienti i pochi caratteri dei tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e «rendere esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori».
Il diritto di critica ha infatti dei precisi requisiti che, se varcati, possono ledere il vincolo di fedeltà alla base dei rapporti di lavoro e portare al licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Interessante anche l’aspetto dell’onere della prova: se il lavoratore in tribunale contesta la paternità dei post, sostenendo di lasciare incustoditi smartphone e tablet, deve anche dimostrare l’accesso abusivo da parte di terzi. Quindi in sostanza lo screenshot dei contenuti pubblicati sui social basta a dimostrarne la paternità, almeno quando le frasi sono verosimili e eventualmente rafforzate da testimoni.
Secondo una sentenza del Tribunale di Milano (scarica in fondo all’articolo) rientra invece nel diritto di critica pubblicare un articolo che riguarda la propria azienda e commentarlo “genericamente”, affermando che “padroni così meritano solo disprezzo”. Il Tribunale di Milano ha anche ritenuto la parola “bastardo” non è diffamatoria, ma una semplice espressione di disistima.
Naturalmente ogni situazione va esaminata caso per caso e la difesa deve essere sempre particolarmente accurata.
Scarica Tribunale di Busto Arsizio 20 febbraio 2018 n. 62 est. Molinari
Scarica Tribunale di Milano 29 novembre 2017 n. 3153 est. Atanasio
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