– a cura di Filippo Capurro –
Non costituisce condotta diffamatoria l’utilizzo di una chat riservata ai componenti di una organizzazione sindacale su Facebook per scambiare valutazioni e giudizi di contenuto anche pesantemente negativo relativi alla società a cui i lavoratori appartengono e al suo amministratore.
L’importante pronuncia della Suprema Corte (Cass. 21965/208) si inserisce in un dibattito giurisprudenziale sempre più intenso sull’esercizio del diritto di critica da parte dei lavoratori, tramite social.
I passaggi interessanti della pronuncia qui richiamata sono sostanzialmente i seguenti:
- una chat su Facebook composta unicamente da iscritti a una specifica sigla sindacale deve considerarsi alla stregua di un luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno e utilizzabile solo dai membri ammessi;
- le conversazioni ivi tenute costituiscono esercizio del diritto costituzionalmente protetto (art. 15 Cost.) alla libertà e segretezza di corrispondenza, la quale ricomprende “ogni forma di comunicazione, incluso lo scambio di opinioni e discussioni tramite i mezzi informatici resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”;
- alla luce degli standard presenti nel contesto sociale odierno, nel cui ambito vanno collocate e contemperate le esigenze di tutela della libertà di espressione della persona rispetto al compimento di condotte offensive o diffamatorie, l’utilizzo di frasi pesanti costituisce mera “coloritura” entrata nel linguaggio comune;
- nel caso specifico, inoltre, le espressioni sono il portato di una provocazione datoriale consistente in un comportamento posto in violazione di un diritto costituzionalmente protetto quale la libertà sindacale (art. 39 Cost.) in quanto il datore di lavoro aveva suggerito al lavoratore di cambiare sindacato perché quella certa sigla sindacale “voleva la morte dell’azienda”.
Il licenziamento del lavorate che aveva effettuato le menzionate esternazioni è stato pertanto ritenuto illegittimo.