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– a cura di Filippo CapurroAngelo Beretta – Ottobre 2019 – 

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) riguarda un datore di lavoro (supermercato) che, dopo aver subito ingenti ammanchi di cassa, ha deciso di installare alcune telecamere nascoste in aggiunta a quelle già esistenti e autorizzate nell’ambito di specifici accordi con le organizzazioni sindacali. Ciò al fine di scoprire se i furti subiti fossero commessi dai dipendenti del supermercato.

Le videoriprese avevano permesso al datore di lavoro di accertare che gli ammanchi erano dovuti a furti commessi da diversi dipendenti, successivamente dallo stesso licenziati.

In base al diritto spagnolo, applicabile alla fattispecie, i cassieri del supermercato e le organizzazioni sindacali avrebbero dovuto essere informate preventivamente in merito all’installazione delle telecamere di sorveglianza.

Nel ricorso presentato a Strasburgo, i lavoratori licenziati chiedevano quindi di censurare le pronunce dei giudici spagnoli in relazione alla violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul diritto al rispetto della vita privata e familiare.

La CEDU ha invece sostenuto che i giudici spagnoli avevano “attentamente bilanciato” i diritti garantiti sia ai dipendenti che al datore di lavoro: da un lato, il diritto dei lavoratori al rispetto della loro privacy e, dall’altro, la possibilità per il loro datore di lavoro di garantire la protezione della proprietà e il regolare funzionamento dell’azienda, in particolare esercitando la propria autorità disciplinare.

Per fare questo è stato effettuato un esame approfondito delle ragioni che hanno portato il supermercato ad installare le videocamere. La videosorveglianza è stata  considerata proporzionata senza alcuna lesione del diritto fondamentale alla privacy dato che in primo luogo era giustificato da ragionevoli sospetti di grave colpa; in secondo luogo, era appropriato al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito, vale a dire verificare se i dipendenti stavano effettivamente commettendo una reato; in terzo luogo, era necessario, visto che le registrazioni avrebbero fornito prove concrete circa l’accertamento dei soggetti che commettevano i reati; e, infine, era proporzionato poiché il monitoraggio era limitato nello spazio e nel tempo (10 giorni) a ciò che era sufficiente per raggiungere l’obiettivo sopra indicato.

A quanto sopra occorre aggiungere che secondo la Corte Europea erano state tenute in considerazione anche altri elementi di prova, quale ad esempio le ricevute di cassa le quali dimostravano che un numero significativo di acquisti era stato annullato senza pagamento, anche se le merci venivano effettivamente fatte uscire dal supermercato.

In Italia la videosorveglianza nei luoghi di lavoro è regolata dall’art. 4 L. 300/1970, come modificato da uno dei decreti attuativi del jobs act del 2015 (art. 23, comma 1, d.Lgs. 151/2015).

Secondo questa norma l’installazione di telecamere per finalità di tutela del patrimonio aziendale e per esigenze organizzative, produttive e di sicurezza, è lecita solamente se preceduta da un accordo sindacale o da un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. I lavoratori devono inoltre essere informati delle modalità d’uso dello strumento e di effettuazione dei controlli e devono comunque essere rispettati i principi posti dalla normativa sulla privacy.

In epoca precedente alla riforma del 2015, la giurisprudenza aveva ammesso, pur con qualche contrasto, che anche in assenza dell’accordo sindacale o dell’autorizzazione ministeriale, fossero leciti i c.d. “controlli difensivi” ossia quelli diretti ad accertare eventuali condotte illecite dei lavoratori o di terzi, e risulti indispensabile per la tutela del patrimonio aziendale.

Tuttavia, l’espresso inserimento nella norma di legge – avvenuto come si è detto nel 2o15 – del riferimento alla tutela del patrimonio aziendale, ha portato a sostenere che anche per questa finalità occorra l’accordo o l’autorizzazione. Emblematica sul punto è la recente e interessantissima sentenza Trib. Roma 13/06/2018 est. Conte .

La sentenza della Grand Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sembrerebbe far propendere per una riabilitazione della teoria della liceità dei controlli difensivi, filtrata tuttavia da una rigorosa valutazione di bilanciamento degli interessi in gioco attraverso i criteri di  necessità e proporzionalità , concetti tra l’altro molto cari anche al nostro Garante nazionale della Privacy.

Ci pare utile a questo punto ricordare anche la recente Cassazione 28/05/2018 n. 13266 relativa ai limiti di liceità del controllo a distanza dell’uso degli strumenti informatici aziendali. L’esame riguardava il caso in cui un dipendente che era stato licenziato perché colto a effettuare un gioco col computer aziendale, che aveva sollecitato un’indagine informatica ex post con la verifica positiva di precedenti usi impropri, costituisce, per la Corte, l’occasione per ricordare la  presa di posizione della CEDU in materia (sent. 5 settembre 2017), secondo la quale nell’uso degli strumenti di controllo deve individuarsi un giusto equilibrio tra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” e deve essere comunque tutelato il diritto del lavoratore al rispetto della vita privata, mediante la previa specifica informazione sulla possibilità e sulle modalità del controllo.

Antonello Soro, attuale Garante italiano della Privacy, ha affermato:  “la videosorveglianza occulta è, dunque, ammessa solo in quanto extrema ratio, a fronte di “gravi illeciti” e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore. Non può dunque diventare una prassi ordinaria”.

Scarica la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 17/10/2019

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