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Cass. 14 luglio 2015 n. 14723

Non è condivisibile l’opzione ermeneutica secondo cui in caso di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno non potrebbe ritenersi la nullità del licenziamento intimato mentre la gravidanza era ancora in corso, ma neppure può condividersi la diversa e contestata opzione secondo cui, anche in caso di aborto, l’articolo 54 del decreto legislativo 151/01 sarebbe applicabile nella sua integrale disposizione letterale, ossia con la previsione (assurda e anche per ciò solo da escludersi) di un divieto di licenziamento che si estenderebbe fino ad un termine finale irrealizzabile, dovendosi invece ritenere che, mentre per altri esiti patologici il legislatore ha ritenuto di dettare apposite norme parzialmente modificatrici della disciplina di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 151/01, per il caso di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno dal suo inizio ciò non ha fatto, reputando implicitamente che il divieto di licenziamento per il periodo di gravidanza (e dunque solo finché la gravidanza stessa non si sia interrotta) costituisse sufficiente tutela della lavoratrice, in una con la previsione di considerare come malattia la stessa interruzione della gravidanza, previsione dettata a tutela della lavoratrice: ne consegue l’illegittimità del licenziamento adottato per il superamento del comporto.

La Suprema Corte è intervenuta in merito alla nullità del licenziamento della lavoratrice in “stato interessante”, qualora la gravidanza si concluda con un aborto. In particolare, si è ha stabilito che il licenziamento è nullo non solo durante tutto il periodo di gravidanza, ma anche successivamente all’interruzione della stessa, in quanto l’aborto viene equiparato ad un periodo di malattia.

Ne consegue, da un lato, l’obbligo per il datore di lavoro del pagamento delle retribuzioni maturate da quanto ha ricevuto il certificato medico che attestava lo stato interessante della lavoratrice (e non dalla data dell’offerta della prestazione, come invece aveva statuito il giudice delle prime cure); dall’altro, viene respinta l’eccezione dell’impresa, secondo cui la lavoratrice che abortisce godrebbe di una tutela maggiore della protezione riconosciuta alla collega che dà alla luce un bimbo nato morto o che muore durante il periodo di interdizione al lavoro: è pertanto escluso che ci sia spazio per questioni di legittimità costituzionale.