– a cura di Filippo Capurro – Settembre 2020 –
(1) La prescrizione dei crediti degli enti previdenziali
I crediti dell’INPS per pagamento dei contributi previdenziali, quale regola generale, si prescrivono in 5 anni.
Nell’ipotesi in cui il lavoratore o i suoi superstiti, interrompano la prescrizione, denunciando il mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, il termine di prescrizione si allunga a 10 anni, ma solo a favore della persona che denuncia, non di altri collaboratori o dipendenti.
In questo caso l’Ente ha la facoltà di procedere al loro recupero entro 10 anni dall’omissione (dalla singola scadenza contributiva), cioè dal termine entro il quale sarebbero dovuti essere versati i contributi.
Vige il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali, consistente nel diritto alle prestazioni previdenziali anche quando il datore di lavoro abbia omesso il versamento dei contributi, a meno che i contributi dovuti non siano prescritti. In quest’ultimo caso, invece, il codice civile stabilisce che comunque il datore di lavoro è responsabile del danno procurato al lavoratore.
Una volta verificatasi la prescrizione dei contributi, l’INPS non può più richiederli, ma nemmeno riceverli, nell’ipotesi in cui il debitore volesse versarli spontaneamente e il principio di automaticità cessa di operare.
(2) Un paio di cosette da sapere sull’omissione contributiva
I diritti dell’Ente non sono conciliabili tra le parti del rapporto di lavoro. Più precisamente l’accordo transattivo tra i lavoratori ed il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra quest’ultimo e l’Inps, avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, poiché deve essere posta alla base del credito dell’ente previdenziale la retribuzione dovuta e non quella effettivamente corrisposta, in quanto l’obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei confronti dei lavoratori interessati, ovvero che costoro abbiano rinunziato ai loro diritti (Cass. 03/03/2003, n. 3122).
Un’altro aspetto di grande importanza è che, secondo l’art. 23, comma 1, L. n. 218, se il datore di lavoro corrisponde tempestivamente all’ente previdenziale la quota contributiva a carico del lavoratore, può legittimamente operare la relativa trattenuta sulla retribuzione; se invece il datore di lavoro non corrisponde tempestivamente detta quota contributiva – salvo che l’inadempimento non gli sia imputabile – la stessa rimane definitivamente a suo carico. Ne consegue che il lavoratore rimane liberato dall’obbligazione contributiva per la quota a suo carico e il suo credito retributivo si espande fino a comprendere detta quota e che l’intero credito, in sede fallimentare, segue nell’ordine dei privilegi la natura retributiva che gli è propria. Sul punto segnalo, tra le altre, la recentissima Cass. 03/09/2020 n. 18333 , nonché Cass. 16/10/2018 n. 25856.
Inutile dire che tale regola ha una grande importanza nelle ipotesi di differenze retributive non corrisposte, sulle quali – come sovente accade – non siano stati pagati i contributi.
(3) Le azioni del lavoratore decorsi i termini prescrizionali dei crediti dell’Ente previdenziale
Una volta scaduti i termini prescrizionali del pagamento dei contributi previdenziali, l’Ente previdenziale non può più avanzare pretese nei confronti del datore di lavoro, ma il lavoratore potrebbe promuovere diversi tipi di azione:
a) la costituzione presso l’Ente previdenziale di una rendita vitalizia computata in base ai contributi non versati (art. 13 L. 12/08/1962 n. 1338): qui il termine di prescrizione è di 10 anni decorrenti dalla maturazione del termine di prescrizione del diritto al recupero dei contributi da parte degli Enti (quello di cui sopra sub 1). Quindi per intenderci 10 + 10;
b) un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex articolo 2116, comma 2, cod. civ., con il medesimo termine di prescrizione sub a);
c) un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso e tale diritto al risarcimento del danno, con il medesimo termine di prescrizione sub a);
d) un’azione volta a ottenere il risarcimento del danno contributivo (art. 2116 comma 2 c.c.). Questa azione si prescrive nel termine di 10 anni dalla maturazione dei requisiti legali previsti per il diritto alla pensione.
La recente pronuncia Cass. 08/09/2020 n. 18661 ha confermato che, prima del raggiungimento dell’età pensionabile, la situazione giuridica soggettiva di cui può essere titolare il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, consiste nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex articolo 2116 Cc, ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso e tale diritto al risarcimento del danno è soggetto a prescrizione decennale, dovendo rimarcarsi che il venir meno del diritto del lavoratore alle prestazioni previdenziali ed assistenziali, e la consequenziale insorgenza del diritto alla prestazione risarcitoria, si verifica soltanto al maturarsi della prescrizione del diritto degli istituti previdenziali al versamento dei contributi omessi.
Concludo con una notazione: il litisconsorzio necessario con l’ente previdenziale sussiste sia quando l’azione risarcitoria abbia ad oggetto la costituzione della rendita vitalizia, sia nel caso in cui oggetto della domanda del lavoratore sia direttamente la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi omessi.