ScaricaStampa

– a cura di Filippo Capurro – Ottobre 2020 –

Segnalo due recenti pronunce di interesse in materia di licenziamento ritorsivo.

(1) Ritorsione e licenziamento

L’incidenza della ritorsione sugli atti datoriale è uno dei terreni di indagine che ritengo oggi di maggiore interesse nel campo del Diritto del Lavoro, non solo per la tutela che l’ordinamento ha apprestato, essenzialmente con la Legge Fornero che ha riformato l’art. 18 L. 300/1970, ma soprattutto perché le tecniche di tutela apprestate attengono, in sostanza, all’applicazione di una clausola generale quale è quella della buona fede.

Una premessa.

L’art. 18, comma 1, L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) recita:

“Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché (…) o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. (…)”. 

Tale norma è applicabile a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato, compresi i dirigenti, i quali, diversamente, disporrebbero solamente di una tutela più contenuta contro i licenziamenti, essenzialmente economica, prevista dai contratti collettivi.

La ritorsione consiste nell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore e/o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione.

Per costante orientamento di giurisprudenza il motivo ritorsivo deve essere unico e determinante.

Le pronunce sul licenziamento ritorsivo sono ormai numerose e riguardano variegate fattispecie di reazione a diverse tipologie di condotte (lecite) del lavoratore.

 

(2) Il Tribunale di Bari affronta un’articolata fattispecie di demansionamento ed emarginazione di un dirigente, culminata con un recesso

La prima pronuncia è Trib. Bari 16/06.2020 est. Vernia , nella quale il giudice, in ragione di indizi gravi precisi e concordanti, ha ritenuto il licenziamento un atto terminale, per un verso, e come culmine qualitativo, per altro verso, di una strategia di condotta volta a demansionare e ad emarginare un dirigente, e successivamente ad estrometterlo.

Le motivazioni del recesso sono state ritenute pretestuose e il licenziamento è stato considerato come la reazione ingiusta e arbitraria a comportamenti legittimi – sino al punto di avere il rango di diritti soggettivi, quale il diritto di azione in giudizio – del lavoratore.

Come sempre la sentenza è da leggere, anche perché le condotte datoriali ritenute rilevanti sono plurime e articolate. Nella sostanza il rapporto di lavoro si era incrinato quasi subito a causa di contrasti interni tra le parti. Dal ché era poi seguito un distacco presso altra società del gruppo e un demansionamento lamentato dal lavoratore e, infine, a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare una risoluzione incentivata del rapporto (proposta datoriale che non ottenne tuttavia il consenso della controparte) era stato irrogato un licenziamento disciplinare per un presunto utilizzo improprio dell’auto aziendale, come pure per un presunto ricorso “strumentalmente” al diritto di astenersi dalla prestazione lavorativa per malattia.

In diritto segnalo alcuni passaggi della pronuncia, che riprendono l’elaborazione formatasi sulla materia.

Quanto all’inquadramento giuridico del motivo illecito:

“Il motivo 􏰄 illecito, a norma dell􏰀art. 1345 c.c., quando 􏰄 contrario a norma imperative di legge, all􏰀’ordine pubblico e al buon costume, ed ha avuto efficacia determinante ed esclusiva nell􏰀’adozione dell􏰀atto. 

E􏰀 pacifico, segnatamente, che appartiene a questa categoria il 􏰆 qui invocato – licenziamento per ritorsione, ossia intimato per ingiusta e arbitraria reazione a comportamenti legittimi risultati sgraditi al datore di lavoro (…), tra i quali classicamente rientra la rivendicazione dei propri ritenuti diritti”. 

Quanto alla necessaria esclusività del motivo illecito:

“Inoltre, come già􏰃 sottolineato a mente dell􏰀art. 1345 c.c., in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il  motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere  determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di  recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito  formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, 1° comma, stat. lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento􏰂 (Cass. civ., sez. lav., 04-04-2019, n. 9468). Ciò implica che se il licenziamento risulta assistito, nonostante la concomitante presenza di un motivo illecito, da una giusta causa o un giustificato motivo, non può essere ritenuto nullo per illiceità del motivo.”.

Circa il profilo probatorio:

“Sono assestati anche i profili probatori di questo modello di giudizio, essendo incontroverso che 􏰁l’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso􏰂 (cfr. Cass. civ., sez. lav., 23-09- 2019, n. 23583). Si è anche precisato, peraltro, che fra gli elementi presuntivi rilevanti ai fini della prova del carattere ritorsivo del licenziamento 􏰁presenta un ruolo non secondario la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole􏰂 (T. Parma, 01-02-2018)”. 

Riannoda infine il giudice le fila di un’accurata ricostruzione in fatto della vicenda, affermano:

“Si versa quindi, ad avviso del giudicante, in un caso tipico nel quale il licenziamento ha rappresentato la reazione ingiusta e arbitraria a comportamenti legittimi (sino al punto di avere il rango di diritti soggettivi, quale il diritto di azione in giudizio) del lavoratore, e deve dunque dichiararsi nullo in quanto determinato in via esclusiva da un motivo ritorsivo e quindi illecito.  Dovrà􏰃 quindi applicarsi la tutela di cui all􏰀art. 18, commi 1 e 2, della legge n. 300/1970, come modificato con legge n. 92/2012, c.d. tutela reintegratoria piena.”. 

Su questa pronuncia segnalo anche la bella nota di Simone Varva , pubblicata sulla rivista Giustizia Civile.com, la cui interessantissima sezione di Diritto del Lavoro è diretta dai Professori Franco Scarpelli e Marco Marazza e dal Presidente Paolo Sordi.

 

(3) La Corte d’Appello di Milano su un nostro caso relativo a un dirigente

La seconda pronuncia che segnalo è Corte d’Appello di Milano 09/10/2020 n. 664 Pres. Est. Picciau , che ha deciso su un caso seguito dal nostro Studio, la cui pronuncia di primo grado, nel giudizio di opposizione Fornero, aveva formato oggetto di un pezzo pubblicato su questo sito (“Ancora un nostro caso di licenziamento ritorsivo del dirigente” ) al quale rinvio, e dal quale è possibile trarre qualche ulteriore dettaglio, oltre che leggere la relativa pronuncia.

Sul punto, sia in relazione a questa sentenza che all’ordinanza sopra richiamata, è da osservare che la prova del licenziamento ritorsivo è necessariamente presuntiva. Difficilmente il datore di lavoro dichiarerà la propria reale intenzione e del resto un’indagine sulla stessa non potrà che avvenire per via indiretta. Il giudice valuterà dunque tutto il complesso degli elementi indiziari acquisiti al giudizio – anche in relazione alla loro connessione temporale – che se plurimi, precisi e concordanti, porteranno alla formazione di una prova piena.

Vi è da dire, a questo proposito, che rientrano negli elementi del corpo delle presunzioni anche quelli considerati per escludere la sussistenza del requisito causale. Si ritrova questo percorso probatorio in numerose decisioni, e non è un dato insignificante: d’accordo che l’assenza di un motivo di licenziamento non è giuridicamente un elemento sufficiente a sostenere la ritorsione  – e del resto la stessa legge lo esclude, contemplando per questo vizio altre sanzioni – ma le tecniche di tutela che passano per le clausole generali (ad es. correttezza e buona fede) sono fortemente condizionate dal “motivo” dell’atto: chi agisce senza motivo agisce per un motivo, si tratta solo di capire quale.

Osservo però che, anche nell’ambito della difesa del datore di lavoro, il percorso ricostruttivo è analogo: non potrà essere dimostrata per via diretta una sua buona intenzione, o quanto meno l’assenza di una cattiva. Il difensore dovrà pertanto ricostruire il quadro, muovendo principalmente dagli elementi presuntivi avversari, riconsiderandoli, opponendoli con elementi di segno contrario e leggendoli nel contesto.

Il giudice si trova di fronte a una valutazione complessa, ma necessaria.

A proposito della dedotta riorganizzazione aziendale posta a base del licenziamento, e quindi all’aspetto della esclusività del motivo ritorsivo, meritano una particolare menzione alcune considerazioni rinvenibili nella sentenza della Corte d’Appello.

Il datore di lavoro contestava che il giudice di primo grado era impropriamente entrato nel merito delle scelte organizzative del datore di lavoro.

Di seguito alcuni passaggi campali e magistrali della pronuncia:

  • “il riscontro di effettività non attiene alla sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore o di ridurre il personale, non potendo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trovare la sua ontologica giustificazione nella scelta operata (ad libitum) dall’imprenditore (sarebbe così preclusa in radice la verifica di legittimità non rimanendo al giudice altro riscontro se non la presa d’atto che il lavoratore licenziato occupava il posto di lavoro soppresso), ma attiene alla verifica del nesso causale tra soppressione del posto di lavoro e le ragioni della organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso  (Cass. Sez. Lav. 24458/2016 )”;
  • “(…) deve essere sempre verificato il nesso causale tra l’accertata ragione inerente l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro come dichiarata dall’imprenditore e l’intimato licenziamento , in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all’operata ristrutturazione “in quanto“ ove il nesso causale manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l’uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento (Cass. 10699/2017)”;
  • “il recesso deve pur sempre ricollegarsi ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento e dunque a ragioni obiettive ed effettive (che permettano la verifica di detti interessi), operando sempre il principio di buona fede e correttezza (ex artt. 1175 e 1375 cod. civ.) quale limite al potere datoriale di recesso.

I menzionati principi culminano con una brillantissima considerazione della Corte d’Appello, che molto insegna a noi giuristi del lavoro:

“Ritiene la Corte che la prova di una profonda riorganizzazione e di tali mutate esigenze citate nella lettera di recesso fosse ancor più necessaria nella fattispecie per escludere che sia stata proprio la riorganizzazione ad imporre il licenziamento di […] e non il contrario.

 

(4) Dulcis in fundo

Mi sia consentito, in chiusura, riprendere un’osservazione che già svolgevo qualche tempo fa su questo sito.

Le clausole generali e i rimedi anti abusivi – quali correttezza e buona fede, divieto di frode alla legge, divieto di ritorsione etc. – hanno trovato, nel tempo, sempre più spazio nella vita del nostro ordinamento giuridico. Emblematico il famosissimo caso Renault (deciso con la sentenza Cass. 18/09/2009, n. 20106), relativo a un atto di  autonomia privata (nel caso un  recesso “ad nutum” da un contratto di concessione).

Il diritto del lavoro regola rapporti nei quali la posizione delle parti oscilla in un equilibrio delicato e complesso, anche per l’esistenza di poteri (non solo conformativi) in capo al datore di lavoro, e le tecniche di tutela che vedono l’uso delle clausole generale sono particolarmente adatte a questo terreno.

Si tratta di strumenti interpretativi che, in un ordinamento come il nostro di matrice bismarckiana e quindi fortemente normato, vengono sovente vissuti con disagio, mentre in sistemi più agili, come quelli anglosassoni, sono percepiti e quindi accettati come primari strumenti regolatori.

Ribadisco che, non solo nel campo del licenziamento, sempre più mi convinco che, senza operazioni interpretative di questo tipo, alcuni fenomeni siano giuridicamente ingovernabili e che la crescente complessità delle vicende da normare non possa camminare di pari passo con l’esponenziale accrescimento della complessità della normativa.

 

Sul nostro sito In materia di licenziamento ritorsivo