Il caso affrontato dalla recente pronuncia Cassazione 18 luglio 2018 n. 19092 riguarda il licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che aveva proferito alla presenza del Direttore Generale e di un collega diverse frasi ingiuriose nonché altre gravi espressioni.
Più precisamente il dipendente aveva pronunciato ”non me ne frega un c…” e “testa di c…”; nonché espressioni in ordine alla responsabilità per la rovina dell’azienda, entrambe dirette all’indirizzo del Direttore Generale stesso e percepite sia da altri colleghi sia da due ospiti esterni.
Il percorso processuale ha portato i giudici a ritenere:
- la sussistenza della volontà offensiva da ritenersi intrinseca nelle espressioni utilizzate;
- la contrarietà della condotta alle norme di comune etica e del comune vivere civile;
- la presenza di una gravissima insubordinazione;
- l’assenza di provocazione del datore di lavoro, evidenziandosi come il permesso medico, richiesto e rifiutato, che sarebbe stato il motivo della reazione, fosse relativo a una visita medica programmata da tempo, sì che il dipendente ben avrebbe potuto richiedere il permesso per tempo, assicurando al datore di lavoro il modo e il tempo opportuni ad organizzare la propria attività;
- l’assenza di ipotesi di espressione del diritto di critica, attesa la mancata rispondenza – anche in ragione del tono di voce elevato utilizzato – “al principio di continenza sostanziale e formale” che deve comunque essere rispettato dal lavoratore che avanzi un giudizio sull’operato del datore di lavoro.
Come si vede gli aspetti oggetto di valutazione dei giudici sono diversi ed occorre pertanto sempre un’attenta valutazione caso per caso sul miglior modo di intervenire.