– a cura di Filippo Capurro –
Una recente sentenza ha stabilito che, se viene accertato lo svolgimento di mansioni diverse da quelle previste nel patto di prova, il licenziamento del lavoratore nel periodo di “libera recedibilità” non comporta l’applicazione del regime reintegratorio per il licenziamento illegittimo, ma il più limitato rimedio del risarcimento del danno (Cass. 3 dicembre 2018 n. 31159) .
Il risarcimento deve essere parametrato al pregiudizio sofferto per essere il periodo di prova rimasto inadempiuto. Al lavoratore dovrà essere consentito, ove possibile, lo svolgimento del periodo di lavoro per la durata prevista nel patto, oppure sarà liquidato il risarcimento del pregiudizio sofferto. La Cassazione ha quindi rinviato alla Corte territoriale affinché, in diversa composizione, provveda alla determinazione del risarcimento del danno dovuto al lavoratore per non essergli stato consentito lo svolgimento delle mansioni oggetto della prova.
Per contro la previsione di un patto di prova illegittimo (ad esempio perché concordato dopo l’inizio del rapporto di lavoro o in presenza di un precedente contratto a tempo determinato per le stesse mansioni) produce l’effetto della conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro e la conseguente applicazione del rimedio della reintegrazione, per essere stato il licenziamento intimato in assenza di giusta causa o di giustificato motivo. In questo secondo caso, infatti, la clausola del patto di prova viene espunta dal contratto e il rapporto prosegue a tempo indeterminato.
Quanto alle conseguenze sanzionatorie, in questo secondo caso di illegittimità del patto di prova, interessante è l’ambito delle c.d. “tutele crescenti” (lavoratori assunti dal 07/03/2015) nel quale vi è stato una divisione in giurisprudenza per quanto riguarda le conseguenze sanzonatorie.
Secondo un primo orientamento l’invalidità del patto di prova per carenza di forma e di sostanza darebbe luogo alla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente in quanto il licenziamento, poiché fondato su una ragione inesistente, sarebbe ingiustificato. L’accertata inesistenza delle ragioni poste alla base della motivazione del recesso, comporta, secondo questa interpretazione, l’insussistenza del fatto materiale e l’applicazione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 23/2015 (Trib. Torino 16 settembre 2016 est. Mancinelli).
Un secondo orientamento, invece, afferma l’inapplicabilità delle disposizioni previste dall’articolo 3, comma 2, della legge 23/2015 ma solo dell’art. 3, comma 1, che sanziona con la sola indennità economica l’illegittimità del recesso datoriale. Secondo questo orientamento, la tutela reintegratoria prevista in caso di insussistenza del fatto materiale (articolo 3, comma 2) è applicabile infatti ai soli licenziamenti disciplinari (Tribunale di Milano 8 aprile 2017, giudice Bertoli).