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– a cura di Filippo Capurro – Settembre 2020 –

1. Premessa

Il patto di non concorrenza, nel rapporto di lavoro subordinato, è disciplinato dall’art. 2125 c.c. che recita:

“Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto , se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.”.

Rimangono comunque in ogni caso ferme le norme in materia di tutela del segreto professionale e industriale, contenute anche nel codice penale.

L’istituto del patto di non concorrenza ha generato un articolato contenzioso soprattutto in riferimento all’interpretazione dei requisiti di legittimità soprattutto con sguardo al corrispettivo e ai limiti di oggetto, come pure in relazione ai rimedi sanzionatori e al recesso.

Senza pretese di completezza segnalo alcune recenti pronunce.

 

2. Ambito oggettivo di efficacia

Segnalo la recente pronuncia Cass. 26/05/2020 n. 9790 , che ha affermato che, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c., occorre osservare i seguenti criteri:

  1. il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato;
  2. il patto non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale;
  3. il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato.

Alla stregua di tali premesse è stato ritenuto  valido il patto di non concorrenza con il quale il dipendente di un istituto di credito, assunto come private banker, si era impegnato a non operare per un periodo di tre anni nel solo settore del “private banking”, limitatamente ai prodotti già trattati con la clientela dell’istituto stesso, nell’ambito di una sola regione e dietro un corrispettivo di € 7.500,00 annui, regolarmente versati per tutta la durata del rapporto di lavoro. 

Anche secondo Tribunale di Como 04/11/2019, n. 235 est. Ortore, le limitazioni contenute nel patto di non concorrenza possono riguardare non solo le mansioni svolte dal dipendente presso l’originario datore di lavoro, ma altresì la diversa attività lavorativa che il dipendente potrebbe esercitare in concorrenza con l’ex datore di lavoro. Sotto tale profilo, si deve tenere conto dell’effettiva potenzialità concorrenziale del nuovo datore di lavoro e della collocazione che il dipendente potrebbe assumere presso lo stesso.

Il patto è però nullo quando per ampiezza è idoneo a comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore limitandone ogni potenzialità reddituale.

 

3. Il Corrispettivo

Di grande interesse è l’ingegnosa sentenza Trib. Milano 04/05/2020 est. Atanasio .

Il testo del patto di non concorrenza era il seguente:

“Per la durata del rapporto di lavoro e per il periodo di 12 (dodici) mesi successivi alla sua risoluzione, qualunque ne sia la causa, Lei si obbliga a non contattare e/o intrattenere rapporti professionali, a non acquisire in qualunque modo e/o, comunque, a non favorire l’acquisizione a favore proprio o di terzi, per attività comunque in concorrenza con quelle della nostra banca nel settore delle gestioni di portafogli finanziari della clientela e dell’intermediazione finanziaria (e comunque per le attività bancarie e di investimento esercitate dagli intermediari nel settore che viene comunemente riconosciuto come “Private Banking”) la clientela della nostra società e/o del nostro gruppo (la “Clientela”). 

Per maggior chiarezza, nell’ambito di tale vincolo Le è precluso di intrattenere qualsiasi rapporto di natura professionale, diretto o indiretto, per conto proprio o di terzi, con tale Clientela”. 

Il giudice rileva la nullità di questo patto, sostanzialmente per le seguenti ragioni:

a) la sola indicazione dei clienti della Banca è eccessivamente generica al fine di definire l’oggetto del divieto. Il lavoratore infatti non può essere certo a conoscenza di tutta la clientela proprio in considerazione della normale riservatezza che caratterizza questo genere di rapporti. Inoltre, non essendo i clienti evidenziati nel patto questo non acquisisce oggettività anche ai fini del controllo della sua violazione ad opera del giudice: è infatti impedito a questo giudice di avere chiaro il quadro dei clienti “non avvicinabili” ad opera del ricorrente.

b) la genericità dell’oggetto del patto è accentuata poi dalla circostanza che quello fa esplicito riferimento alla clientela della Banca e del Gruppo – che ha certamente una dimensione planetaria – in tal modo rendendolo del tutto evanescente.

c) Il patto pone il divieto “per la durata del rapporto di lavoro e per il periodo di 12 (dodici) mesi successivi alla sua risoluzione”. Il contratto poi ha effetto per un periodo di tre anni. Il patto però sanziona la sua violazione (riferita quindi anche alla concorrenza in corso di rapporto di lavoro) con la previsione di una sanzione di € 330.000,00 a fronte di un compenso di € 110.000,00 il cui importo sarebbe certo adeguato se fosse riferito ad un obbligo di non concorrenza della durata di un anno (limitato cioè al periodo successivo alla cessazione del rapporto). Ma, come si è detto prima, l’obbligo si estende ad un periodo di quattro anni (i tre anni di vigenza dell’accordo oltre ad un anno per il periodo successivo alla eventuale cessazione del rapporto, che potrebbe verificarsi allo scadere della vigenza del contratto).
La clausola che impone la penale ha quindi una vigenza di quattro anni; sicchè, perdurando per quattro anni l’obbligo e la penale, non si può dubitare che a quel medesimo periodo il compenso deve essere riferito: così correttamente inteso se ne deve affermare allora la sua inadeguatezza.

d) Resta pertanto violato anche il parametro della adeguatezza del compenso che tiene ovviamente conto del compenso annuo del lavoratore che, in questo caso, ammontava ad oltre 140.000 €; il corrispettivo del patto è pari a circa il 20% della retribuzione annua percepita nel corso del rapporto (durata dell’obbligo (4 anni) – compenso (110.000: 4). Nullo il patto di non concorrenza, il ricorso deve essere respinto.

 

4. La tutela cautelare

Sempre nell’ambito del settore del private banking segnalo l’ordinanza Tribunale di Livorno 03/06/2020 est. Manfrè  che ha rigettato il ricorso del datore di lavoro per difetto di prova del periculum in mora, ponendo in questa prospettiva l’accento sulla presenza nel patto di non concorrenza di una clausola penale, ritenuta idonea ad escludere il presupposto dell’irreparabilità del danno, prefigurato, a questo punto, dalle stesse parti come risarcibile per equivalente.

Senza voler prendere posizione su tale orientamento – che nel dibattito giuridico è molto controverso – mi sembrano interessanti due passaggi della pronuncia.

Da un lato viene osservato che “occorre, pertanto, adottare una valutazione caso per caso del periculum che va ravvisato sia nei casi in cui la situazione giuridica soggettiva non si presta ad un risarcimento idoneo a realizzare integralmente il contenuto del diritto stesso, sia nei casi in cui la lesione del diritto vantato comporta la contemporanea lesione di beni e/o interessi funzionalmente connessi al diritto stesso, sia, infine, nei casi in cui la lesione implica l’irreversibilità degli effetti pregiudizievoli causati”.

Viene poi rilevato che “di conseguenza appare indispensabile che il ricorso cautelare indichi dettagliate ragioni di urgenza, ulteriori rispetto a quelle rappresentate dalla natura della causa, che giustifichino l’utilizzazione della misura cautelare in luogo dello speciale rito del lavoro; di talché chi ricorre all’art. 700 c.p.c. ha l’onere di allegare la natura del pregiudizio temuto e le ragioni della sua gravità ed irreparabilità, onde consentire al giudicante di verificare caso per caso se si prospetti una situazione limite, per condotte non sanzionabili con il solo equivalente pecuniario, cui occorre owiare con un immediato intervento giudiziario.

La pronuncia del Tribunale di Roma 16/07/2020 ha invece accordato la tutela cautelare al datore di lavoro, mediante decreto inaudita altera parte, attribuendo rilievo, sul piano del periculum, al flusso dei disinvestimenti della clientela, verosimilmente riconducibile all’opera dell’ex dipendente vincolato dal patto di non concorrenza.

 

5. La risoluzione del patto di non concorrenza

Interessante è poi il discorso sulla possibile facoltà del datore di lavoro di decidere se dare o mantenere efficacia al patto di non concorrenza, a seconda delle valutazioni di opportunità che potrà svolgere fino al momento della cessazione del rapporto, così assumendo o meno i relativi oneri economici del corrispettivo. 

Rinvio ad alcune sentenze sul tema, menzionate in un mio recente contributo su questo sito (“Patto di non concorrenza “a discrezione” del datore di lavoro … ancora vertigini e capogiri”) nel quale cerco di dare un quadro del sottile problema.

 

Sul nostro sito sempre in materia di patto di non concorrenza