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– a cura di Filippo Capurro – Novembre 2020 – 

Segnalo qui la sentenza della Corte Costituzionale 26/11/2020 n. 254  qui scaricabile nel testo integrale reso disponibile ieri.

Essa contiene le attese motivazioni sulla base delle quali la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla Corte d’Appello di Napoli con l’ordinanza del 18/09/2019 sulla disciplina dei licenziamenti collettivi contenuta nel Jobs Act licenziamenti.

(1) I termini del problema

La norma sottoposta all’attenzione della Consulta è l’art. 10, d.lgs. 23/2015 (Jobs Art licenziamenti), che riguarda i licenziamenti collettivi di lavoratori assunti dal giorno  07/03/2015.

Essa stabilisce, tra l’altro, che in caso di violazione delle procedure previste per attuare licenziamenti collettivi (di cui all’art. 4, comma 12 L. 223/91) o dei criteri di scelta (di cui all’art. 5, comma 1, L. 223/1001), trova applicazione la mera tutela indennitaria (art. 3, comma 1, d.Lgs. 23/2015) e non quella reintegratoria.

In sostanza la condanna si attesterà da 6 e 36 mensilità, secondo i noti criteri di modulazione.

Viceversa ai lavoratori assunti prima del 07/03/2015 si applica ancora, sul piano sanzionatorio, l’art. 5, comma 3, L. 223/1991, che prevede per il mero vizio procedurale la c.d. tutela indennitaria forte, da 12 a 24 mensilità (art. 18. comma 7, terzo periodo) e, per la violazione dei criteri di scelta, la c.d. tutela reintegratoria attenuata, consistente nella reintegrazione e in un indennità fino a un massimo di 12 mensilità (art. 18, comma 4). 

(2) Le questioni sollevate dal giudice remittente

La Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto la nuova norma in contrasto con la Costituzione – in riferimento a una serie di norme che qui è inutile citare – essenzialmente sotto i seguenti aspetti:

  • la differenza di regime sanzionatorio tra lavoratori con maggiore o minore anzianità, magari coinvolti nella stessa procedura;
  • il venir meno della contribuzione obbligatoria, correlata alla perdita del posto di lavoro, non potrebbe compensare la contribuzione figurativa, di importo minore, associata alla Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI). 
  • le implicazioni processuali della disciplina derivate dall’eliminazione del “rito Fornero” introdotto allo scopo di garantire in maniera più rapida i diritti del lavoratore illegittimamente licenziato; 
  • la possibile violazione della delega legislativa, ritenendo che l’attribuzione al Governo del potere di modificare (anche) la disciplina dei licenziamenti collettivi avrebbe dovuto essere espressa chiaramente;
  • la violazione di norme e principi del l diritto europeo.

Per quest’ultmo aspetto, vi è stato il contemporaneo rinvio dell’esame del decreto 23/2015 all’attenzione della Corte di Giustizia Europea, nella quale si è chiesto di chiarire l’interpretazione della portata e della valenza delle norme comunitarie (art. 30 Carta di Nizza, direttiva 98/59/CE, e art. 24 Carta Sociale Europea, per il tramite del citato art. 30), al fine di valutare la compatibilità di queste ultime con il diritto italiano, sotto il profilo della effettività.

(3) La decisione della Corte Costituzionale

La Consulta per parte sua ha osservato essenzialmente:

  • che la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni sottoposte alla sua attenzione dalla Corte d’Appello di Napoli in merito alla conformità di tale regime rispetto all’ordinamento comunitario;
  • che i giudici remittenti non avrebbero argomentato in modo sufficiente sul vizio dello specifico licenziamento, sicché non sarebbe dato comprendere se esso riguardi l’inosservanza dei criteri di scelta o il rispetto delle procedure, sicché non è possibile decidere, dato che solo in caso di violazione dei criteri di scelta vi è la lamentata distinzione di tutela;
  • che, in riferimento all’intervento richiesto, dalle censure non sarebbe chiaro se i giudici remittenti domandino il ripristino della precedente normativa oppure la rimodulazione della tutela disposta dall’art. 10 del DLgs. 23/2015; del resto, sia la tutela reintegratoria sia quella indennitaria possono essere diversamente modulate e ampio è il margine di apprezzamento che spetta al legislatore nell’attuazione dei diritti sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost. 

(4) … ma il problema non è risolto

Per la morfologia della decisione come sommariamente descritta al precedente punto 4, la questione non sembra chiusa, potendo essere riproposta con altre modalità.

Peraltro la vicenda del Jobs Art licenziamenti si inserisce in una serie di pronunce della Consulta che ne hanno già dichiarato per diversi aspetti la illegittimità costituzionale.

In particolare ricordo:

  • Cort. Cost. 08/11/2018 n. 194, nella quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. In particolare è stato precisato che la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
  • Cort. Cost. 16/07/2020 n. 150, nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, poiché la commisurazione dell’indennità dovuta per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali al solo criterio dell’anzianità di servizio, nel rispetto dei limiti minimo e massimo fissati dal legislatore, è irragionevole e lesiva della tutela del lavoro.

(5) … e del resto se non lo si cerca dove sta non lo si risolverà mai

E’ inutile girarci intorno, l’apparato sanzionatorio sul vizio della violazione dei criteri di scelta è un problema, nella pratica, di cardinale rilievo.

Per chi effettua operazioni di riorganizzazione del personale, in particolare adottando lo strumento del licenziamento collettivo, la corretta individuazione dei criteri di scelta, anche presupponendo la buona fede del datore di lavoro, è una corsa a ostacoli, tolto il caso della cessazione dell’attività, dove, a ben vedere, la questione neppure si pone.

Però cercare di risolvere il problema sostanziale, allentando la tutela sanzionatoria, come ha fatto il Jobs Act, è una strada a mo avviso non corretta e di modesta tenuta anche prospettica.

La questione tornerà infatti inevitabilmente all’attenzione della Consulta.

La scelta dei lavoratori da licenziare, sulla base dei criteri previsti dalla norma è ardua.

Nessuno ci capisce qualcosa: gli imprenditori – anche nelle ipotesi in cui non vogliano cogliere l’occasione per una selezione discrezionale dei lavoratori da estromettere – hanno esigenze incompatibili con i vincoli ai quali sono sottoposti; consulenti e avvocati non sanno che pesci pigliare e, al di là di improbabili fogli di calcolo in cui combinare anzianità di servizio e carichi di famiglia, sullo sfondo di non ben definite esigenze organizzative, non possono andare; le organizzazioni sindacali sono interessate a negoziare accordi con i quali uscirne senza il rischio di avere penalizzato, ma anche solo creato malcontento tra i lavoratori con differenziazioni sgradite; dulcis in fundo i giudici si trovano ad applicare una norma ingestibile e non possono far altro che accertare eventuali criticità nell’applicazione dei criteri di scelta e applicare le sanzioni di legge. Nessuna di queste categorie è, in questo contesto, in alcun modo biasimabile, ma solo ahimè compatibile.

In questo quadro di difficoltà il legislatore del jobs Art ha avuto un guizzo di genio e ha pensato di retrocedere la tutela reintegratoria a quella indennitaria. Così, se qualcosa va storto e il licenziamento viene accertato come illegittimo per violazione dei criteri di scelta, bene o male nessuno avrà troppo da questionare, avendo  tutti un contentino: i lavoratori un indennizzo economico, sovente non modesto, e i datori di lavoro l’assenza dell’obbligo di reintegrare.

Capito la finezza?

Ora, per quanto certamente non sia facile, è la norma sostanziale che dovrebbe disciplinare in modo più appropriato e, mi permetto di aggiungere, sostenibile, il contenuto e le modalità di applicazione dei criteri di scelta.

Anzianità di servizio, carichi di famiglia e esigenze organizzativi sono infatti parametri che, alla prova dei fatti, hanno solo creato incertezze e rigidità, non appropriate in un sistema di organizzazione del lavoro con complessità ormai sempre più spinte.

Per esempio, è giusto gettare una manciata di criteri di scelta pressoché indefiniti alla mercé di chi deve declinarli? L’assenza di una qualche indicazione di dettaglio su un eventuale priorità o peso di ciascuno ne facilità l’uso?

E ancora, chiedo scusa, la vogliamo definire, una volta per tutte, la nozione di fungibilità? Cosa che peraltro servirebbe anche in altri ambiti della normativa lavoristica, come in materia di repechage nei licenziamenti individuali.

E proseguendo, l’applicazione dei criteri di scelta orizzontalmente su tutte le sedi aziendali non ha alcun senso. In pratica ci si potrà trovare a dover licenziare un lavoratore di un’altra sede rispetto a quella interessata (in quanto i criteri di scelta così imporrebbero), senza sapere se il lavoratore della sede invece coinvolta sia ad esempio disposto a trasferirsi nella posizione liberata; e ciò al netto delle infinite difficoltà di spostare e, probabilmente, formare delle risorse.

La possibilità di definire e dettagliare i criteri di scelta nell’accordo sindacale è poi poco meno di una chimera. Oltre al criterio volontaristico / economico, e in alcuni casi quello dell’accesso alla pensione (anch’esso denso di criticità), è difficile andare. E del resto accordi in senso diverso rischierebbero di scontentare questi o quei lavoratori, terreno in cui, neppure in nome di una sensata ed equilibrata gestione degli esuberi (e dell’impresa) i sindacati intendono avventurarsi. E come biasimarli se ci si mette nei loro panni.

E’ questo un esempio emblematico di come una norma troppo generale non vada bene, e lo dice un giurista che detesta le norme eccessivamente capziose, preferendo di gran lunga le clausole generali.

Insomma un grande pasticcio che va avanti da quasi trent’anni e che ha portato condotte non sempre virtuose in sede di riorganizzazioni, anche mediante manovre di discutibile decentramento produttivo, finalizzate a “scavallarlo” alla bell’e meglio.

Concludo: non sempre i conflitti si risolvono con la prevalenza di un interesse su un altro. Un sano win win qualche volta non guasterebbe, nell’interesse di tutti, tra i quali, tra l’altro, rientra ciascuno.

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