– a cura di Alessia Capella – Dicembre 2019 –
(1) Le occasioni nelle quali il comportamento datoriale travalica i limiti della normale subordinazione gerarchica insita nel rapporto sinallagmatico consentono di rivolgere l’attenzione alla tutela dei diritti fondamentali dei dipendenti e alle conseguenze derivanti da una loro eventuale lesione.
Diritto alla salute, diritto alla dignità personale, diritto all’immagine professionale, tutela della personalità (in tutte le sue esplicazioni) costituiscono declinazioni concrete e maggiormente rappresentative dei diritti costituzionalmente garantiti (ex artt. 2, 4 e 34 Cost.) all’interno di un rapporto subordinato, la cui estrinsecazione viene a volte mortificata dal contegno datoriale.
Ecco allora che la relativa violazione – riguardando prerogative essenziali dell’individuo – riceve apposita tutela dall’ordinamento giuridico, generando l’operatività delle norme e dei principi civilistici che consentono il riconoscimento, in capo al soggetto leso dalla condotta illecita, di posizioni soggettive giuridicamente tutelabili alla stregua di diritti costituzionalmente garantiti.
La titolarità del diritto costituzionalmente garantito legittima infatti il soggetto che ne è portatore a domandare il risarcimento del danno non patrimoniale in caso di violazione, nella duplice componente descrittiva: (a) “biologica”, ovvero connessa al danno alla salute e alla percentuale di inabilità medicalmente riconosciuta, liquidata mediante applicazione delle Tabelle di Milano; (b) “morale/esistenziale”, connessa alla sfera personale del lavoratore, liquidata anche con criterio equitativo; ciò al fine evitare la proliferazione ingiustificata delle categorie di danno risarcibile (c.d. danni bagatellari) (Cass. SS.UU. n. 26972/2008).
(2) Interessante in questo contesto è il caso deciso che vi sottoponiamo oggi (Tribunale di Lanciano 23/11/2019 n. 111 est. Di Stefano ) nel quale è stato riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, con liquidazione equitativa, a un dipendente al quale era stato negato il permesso di recarsi ai servizi igienici e di cambiarsi i pantaloni minzionati.
(3) Nel caso esaminato, un operaio addetto ad una postazione di montaggio aveva azionato il dispositivo di chiamata/emergenza al fine di essere sostituito per recarsi ai servizi igienici, così come previsto dalla procedura interna, ma nessun preposto (o team leader) si era recato nella sua postazione; per tale ragione, il lavoratore aveva allora azionato il dispositivo della postazione vicina con esito ancora negativo e richiesto autorizzazione a recarsi ai servizi ai Team Leader che si trovavano nei pressi della sua postazione senza ottenere risposta positiva.
Dopo l’inutile attesa, ormai allo stremo il lavoratore decideva di recarsi comunque in bagno ma prima di arrivarvi si minzionava nei pantaloni; ciò nonostante riprendeva subito il lavoro chiedendo di potersi cambiare in infermeria ma il permesso gli venne negato, restando così a lavorare con i pantaloni bagnati sino alla pausa.
(4) In tale prospettiva il Giudice ha riconosciuto la violazione dell’art. 2087 c.c., per omessa salvaguardia della personalità morale del lavoratore, non avendo il datore di lavoro predisposto un sistema organizzativo tale da consentire l’allontanamento del dipendente dalla propria postazione lavorativa per soddisfare un bisogno primario non controllabile né preventivabile.
(5) Per la determinazione del risarcimento la Corte di merito ha avviato un ragionamento presuntivo finalizzato alla liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa, distinguendo tra elementi probatori e potata offensiva della condotta tenuta dal datore. In particolare:
- la mancata allegazione di documentazione medica a supporto dello stato ansioso depressivo insorto a seguito della vicenda ha impatto solamente sul riconoscimento del danno biologico/alla salute – nella fattispecie negato per mancanza di prove – senza escludere aprioristicamente l’esistenza di altre tipologie di danno non patrimoniale passibili di risarcimento, tenuto conto degli interessi in gioco, costituzionalmente garantiti e tutelati;
- nel caso specifico, dalla gravità oggettiva del fatto era possibile desumere il concreto e grave pregiudizio arrecato dal datore alla personalità morale del lavoratore nel luogo di lavoro, evidentemente compromesso nella sua componente reputazionale, derivante dall’imbarazzo di essere stato osservato dai colleghi di lavoro con i pantaloni bagnati;
- il ragionamento presuntivo ha quindi consentito di considerare dimostrata la lesione del diritto del lavoratore, con conseguente liquidazione equitativa tenuto conto della modalità della condotta illecita e della portata offensiva della stessa.
Secondo quanto esposto, in assenza di ulteriori prove relative al danno, è dunque possibile invocare e utilizzare il criterio di liquidazione equitativa del danno ogniqualvolta vi sia la lesione di un diritto avente carattere strettamente personale rispetto al quale sussista l’impossibilità di dimostrare in concreto l’entità del danno.
(6) Trattasi di un argomento sul quale sono rinvenibili molteplici interventi giurisprudenziali in ambito labouristico aventi ad oggetto una pluralità di fattispecie. Il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è stato infatti riconosciuto:
A) Sia nell’ambito di condotte “attive” tenute dal datore di lavoro, atte a mortificare o offendere il lavoratore, rinvenibili in:
- condotte omofobe tenute dal datore di lavoro nei confronti di un dirigente – consistenti nella ripetizione di epiteti spregiativi ripetuti alla presenza di colleghi – la cui portata offensiva, commisurata al contenuto, alla reiterazione, alle modalità e al contesto di verificazione, ha leso la dignità del lavoratore (Cass. 19/02/2019 n. 4815);
- molestie sessuali, lesive della personalità morale e della dignità, in quanto svoltesi sul luogo di lavoro e consistenti in proposte di approccio, battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi e apprezzamenti allusivi (Trib. Milano 30/01/2001);
- licenziamento ingiurioso, ove sussistano particolari modalità offensive del recesso, il cui risarcimento può costituire oggetto di valutazione equitativa da parte del Giudice indipendentemente dall’individuazione di un comportamento integrante gli estremi di reato (Trib. Milano 30/06/2003);
B) Sia nell’ambito di condotte “omissive” tenute dal datore relativamente a:
- mancato pagamento delle retribuzioni, le cui conseguenze si sono riverberate sulla vita provata del dipendente, non riuscendo quest’ultimo a onorare il canone di locazione, le utenze domestiche e a trattenere con sé i figli per interruzione del servizio del gas (Trib. Milano 21/09/2015 n. 2426 est. Moglia
– caso questo molto interessante);
- inattività dipendente imposta dal datore di lavoro in assenza di giustificati motivi, lesiva non solo dell’art. 2013 c.c. ma altresì del diritto al lavoro inteso come estrinsecazione della personalità del lavoratore, mortificato dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza (Cass. 18/05/2012 n. 7963).
(7) Le considerazioni svolte aprono pertanto a nuove frontiere liquidatorie del danno, risarcibile ogniqualvolta vi sia la lesione di un diritto costituzionalmente garantito.
Il risarcimento involge tanto la componente biologica ove adeguatamente supportata in giudizio da idoneo materiale probatorio, quanto la componente morale/esistenziale anche in via presuntiva.
In questo secondo caso, l’impossibilità di dimostrare in concreto l’entità del danno viene compensata dall’utilizzo del criterio equitativo di risarcimento, i cui parametri di liquidazione sono la durata, l’intensità, la gravità dell’offesa subita, la posizione delle parti e le circostanze in cui l’offesa è stata arrecata.