In etologia il mobbing è l’insieme dei comportamenti aggressivi adottati da certe specie di uccelli per difendersi da un predatore.
Sul luogo di lavoro si intende per mobbing la sistematica persecuzione esercitata da superiori e/o colleghi nei confronti di un altro lavoratore, consistente per lo più in piccoli atti quotidiani di emarginazione sociale, violenza psicologica o sabotaggio professionale, ma che può spingersi anche in atti di aperta violazione di obbligazioni del rapporto, quali trasferimenti illegittimi, mutamenti di mansioni oltre i limiti consentiti, sanzioni disciplinari infondate e così via.
La tutela contro il mobbing è entrata per via giurisprudenziale nella disciplina del rapporto di lavoro allo scopo dichiarato di prevenire e apprestare tutela anche in relazione a atti, di per non illegittimi, che, se inseriti in una sequenza connotata da un intento persecutorio, ledono la dignità e la personalità morale del lavoratore (comunque protetto dalla norma di chiusura costituita dall’art. 2087 c.c.).
Una recente sentenza (Cass. 20 giugno 2018 n. 16256) afferma che la figura del mobbing ha giuridicamente un rilievo essenzialmente descrittivo, precisando che l’assenza di un intento persecutorio non impedisce la valutazione di ognuno degli atti del datore di lavoro come possibile causa di danni risarcibili in base a norme che prescindono dall’intento persecutorio.
La pronuncia si inserisce nell’orientamento (ad es. Cassazione 19 febbraio 2016, n. 3291) per il quale, in sostanza, il giudice, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza comunque di un danno.