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Cass. 3 luglio 2015 n. 13693

Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.

La Suprema Corte ha stabilito che non costituisce mobbing la decisione del datore di lavoro di sanzionare la dipendente ritardataria decurtandogli alcune ore di retribuzione: nel caso di specie, infatti, non c’è sproporzione tra la sanzione (salario decurtato di quattro ore) e le mancanze addebitate, posto che questo tipo di sanzione è “prevista dalla disposizione collettiva, in relazione a mancanze più lievi rispetto a quelle poste in essere dalla lavoratrice“.

Nel caso in esame, la lavoratrice, dipendente di un centro commerciale, in dieci occasioni nello stesso mese si era presentata sul posto di lavoro con un consistente ritardo, al punto da indurre il datore alla multa per ritardo ingiustificato. Tale decisione aziendale le avrebbe provocato notevoli “disturbi psicofisici”: da qui il ricorso nei confronti del datore, rigettato dai giudici di legittimità, che hanno ribadito, allineandosi alle precedenti pronunce, che “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l‘evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; 

c) il nesso eziologico tra le descritte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; 

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi, Cass. 6 agosto 2014 n. 17698)”.