La valutazione va ovviamente fatta caso per caso, soppesando le situazioni specifiche della situazione esaminata, ma alcuni principi generali possono essere un punto di partenza.
La cordialità e la rilassatezza non sono di base un obbligo giuridico.
Le stesse possono sfociare in atteggiamenti ingiuriosi o lesivi della persona e dell’obbligo di sicurezza dell’ambiente di lavoro, ma questa non è un’equazione fissa.
Quindi non può ritenersi sufficiente una mera conflittualità per potersi parlare di mobbing.
Sul punto alcune pronunce sono emblematiche.
Interessante è la sentenza Cass. 09/01/2018 n. 1381, secondo la quale non costituisce mobbing l’atteggiamento riconducibile alla normale conflittualità nell’ambiente lavorativo, anche laddove tale conflittualità risulti accentuata dalle recriminazioni reciproche scaturite dalla fine della relazione sentimentale tra il datore di lavoro e la dipendente.
La decisione trae origine dal ricorso di una dipendente che, a seguito della rottura della relazione sentimentale instaurata con il proprio datore di lavoro, si era assentata per malattia per oltre nove mesi, e si era poi dimessa per giusta causa, chiedendo la condanna della società al risarcimento dei danni psicofisici che riteneva esserle stati cagionati dalle condotte asseritamente vessatorie e denigratorie poste in essere nei suoi confronti dall’amministratore unico dell’azienda, anche in relazione al manifestato intento di demansionarla.
Riprendendo nostre precedenti news vanno inoltre citate altre pronunce.
Con la sentenza della Cassazione del 14/09/2017 n. 21328 è stato ribadito il principio per il quale grava sul lavoratore l’onere di provare l’intento persecutorio del datore di lavoro.
In sostanza, affinché si configuri una fattispecie di mobbing non è sufficiente che il datore di lavoro abbia posto in essere (direttamente o per mezzo di propri dipendenti) una serie di atti vessatori, per quanto reiterati e sistematici.
Occorre infatti che venga direttamente allegato e dimostrato in giudizio l’elemento soggettivo caratterizzante il mobbing, vale a dire “l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Molto interessante è anche la sentenza della Cassazione del 26/09/2017 n. 22375 secondo la quale la denuncia formulata da un lavoratore, nei confronti del legale rappresentante della società, di maltrattamenti e lesioni personali ricollegati ad una condotta vessatoria asseritamente subita in costanza del rapporto di lavoro, è idonea ad integrare giusta causa di licenziamento se ne emerga il carattere calunnioso, nel senso che il lavoratore che ha sporto la querela si è mosso nella consapevolezza della non veridicità dei fatti ascritti al legale rappresentante.
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