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Cass. 4 giugno 2015 n. 11457

Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

La Suprema Corte ha stabilito che i ripetuti addebiti disciplinari non bastano ad integrare la condotta del c.d. “mobbing” qualora non siano pretestuosi, arbitrari e discriminatori, anche in presenza di un quadro clinico astrattamente riconducibile al mobbing stesso (sindrome ansioso–depressiva), “non potendo trarsi da tale la prova di una condotta persecutoria”.

Nel caso di specie, la ricorrente aveva considerato persecutorie alcune contestazioni relative al rientro in ritardo in azienda dopo le festività di inizio anno, abbandono del posto di lavoro, disordine nella postazione di lavoro, assenza non giustificata. Gli ermellini, nell’individuare la mancanza dell’elemento soggettivo nella condotta datoriale, hanno ribadito la necessaria ricorrenza di alcuni presupposti al fine del manifestarsi del mobbing, quali:

  1. la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; 
  2. l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  4. la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.