Cass. 16 marzo 2015 n. 11128
In caso di morti da amianto, il datore di lavoro ne risponde, anche quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all’epoca dell’esecuzione dell’attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all’obbligo dì garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro.
Il caso in questione riguardava la responsabilità penale dei datori di lavoro per una serie dì reati tutti riconducibili a fatti riguardanti malattie professionali verificatesi per esposizione ad amianto in uno stabilimento navale. In particolare, le imputazioni riguardavano 43 casi di omicidio colposo e 19 casi di lesioni personali colpose gravi o gravissime.
I giudici di legittimità hanno confermato la condanna degli imputati per le morti degli operai cagionate dalla “dose killer”: essi, infatti, erano titolari di una “posizione di garanzia” rispetto ai danni provocati ai dipendenti come gestori dello stabilimento, e risultano pertanto inadempienti rispetto all’onere di “adottare serie misure dì prevenzione per l’eliminazione o riduzione della polverosità delle lavorazioni (già note all’epoca e necessarie a captare ed eliminare le polveri di asbesto, quali mascherine con filtri speciali ed aspiratori), condotta che avrebbe evitato o ritardato o alleviato le malattie non mortali e evitato o ritardato quelle mortali (tutte dose dipendenti) o allungato la relativa durata, spostandone in avanti l’infausto esito”.
Sussiste conseguentemente il “nesso di causalità” tra condotta ed evento, anche quando non si possa stabilire il momento preciso dell’insorgenza della malattia tumorale: risulta sufficiente che la condotta medesima abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza.