Un medico è stato rinviato a giudizio, davanti al Tribunale di Milano, per il reato previsto dall’art. 480 C.P. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati) con l’imputazione di avere rilasciato, quale medico di base, un certificato medico di proroga della prognosi a favore di una lavoratrice assente per malattia, senza averla nuovamente visitata. La paziente è stata sottoposta a processo in base all’art. 489 del codice penale, per avere fatto uso della certificazione, pur conoscendone la falsità. Il Tribunale di Milano ha assolto entrambi perché ha ritenuto insussistente il dolo, osservando che il medico aveva concesso la proroga sulla base di quanto accertato alla visita effettuata quattro giorni prima, in quanto i sintomi comunicatigli telefonicamente dalla paziente erano compatibili con la malattia in precedenza diagnosticata. In grado di appello, la Corte di Milano ha riformato la decisione dei primo grado affermando la penale responsabilità di entrambi gli imputati. Sia il medico che la lavoratrice hanno proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 18687 del 15 marzo 2012, Pres. Bruno, Rel. Demarchi Albengo) ha rigettato entrambe le impugnazioni. Pronunciando sul ricorso del medico, la Corte ha rilevato che la falsa attestazione attribuita al medico non atteneva tanto alle condizioni di salute della paziente, quanto piuttosto al fatto che egli avesse emesso il certificato senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute, non essendo consentito al sanitario effettuare valutazioni o prescrizioni semplicemente sulla base di dichiarazioni effettuate per telefono dai suoi assistiti; ciò rende irrilevanti – ha affermato la Corte – le considerazioni sulla effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte del paziente; quanto, poi, alla asserita natura colposa della condotta – ha rilevato la Corte – ci si chiede come il medico potesse non essere consapevole del fatto che egli stava certificando una patologia medica senza averla previamente verificata, nell’immediatezza, attraverso l’esame della paziente. Sul ricorso della lavoratrice la Corte ha affermato che, una volta ritenuta la falsità della certificazione medica, ne discende necessariamente la responsabilità della medesima per aver fatto uso dell’atto falso.