– di Filippo Capurro – © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello intimato “per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 della legge 604/1966).
Per orientamento di giurisprudenza costituiscono, in particolare, giustificato motivo oggettivo la cessazione dell’attività o anche solo il venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore.
Non è comunque necessario che vi siano situazioni di crisi aziendale.
In tali circostanze il datore di lavoro datore deve comunque dare prova di aver verificato – all’interno dell’intera struttura aziendale, comprensiva di tutte le unità locali – di non essere in grado diricollocare il lavoratore che si appresta a licenziare. Questo è il c.d. obbligo di repechage.
Ma cosa succede in caso di violazione di tale obbligo?
Limitando l’indagine alle imprese che occupano più di quindici dipendenti, per le quali i rischi sanzionatori sono più rilevanti, la risposta è diversa a seconda che il lavoratore sia stato assunto o meno con contratto a tutele crescenti:
Per i lavoratori ai quali si applica il Jobs Act, ossia assunti dopo il 07/03/2015, l’impianto della riforma limita la tutela contro l’illegittimo licenziamento economico a un indennizzo. Sicché in caso di violazione del repêchage – e salvo si aggiungano vizi più gravi – si avrà il mero indennizzo.
Per i lavoratori ai quali si applica la disciplina Fornero, ossia assunti fino al 07/03/2015, la prevalente giurisprudenza tendeva a escludere la tutela reintegratoria in favore di quella meramente indennitaria, sul presupposto che il repêchage non attinesse al “fatto posto a fondamento del licenziamento” (Trib. Milano 20/11/2012; Trib. Torino 05/04/2016; Trib. Genova 14/12/2013; Trib. Varese 04/09/2013; Trib. Roma 08/08/2013; in senso contrario già si riscontrava Trib. Reggio Calabria 03/06/2013).
Il più recente orientamento, peraltro ancora altalenante, è invece nel senso dell’applicazione del della tutela reintegratoria.
Emblematica e la sentenza della Suprema Corte, Cass. 02/05/2018 n. 10435, secondo la quale la verifica del requisito della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La «manifesta insussistenza» va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo articolo 18 (ossia la tutela reintegratoria attenuata).
Analogamente Corte d’Appello di Roma 01/02/2018, Pres. e Rel. Pascarella, che ha affermato come costituisca diritto vivente l’approdo giurisprudenziale secondo cui l’impossibilità di ricollocamento del lavoratore rappresen una delle condizioni di fatto che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con la conseguenza che anche tale impossibilità costituisce un elemento del ” fatto” che deve sussistere per evitare l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata.
Nello stesso senso la recente sentenza Trib. di Bologna 16/05/2018 n. 3462, est. Marchesini .