– a cura di Filippo Capurro – Ottobre 2022 –
Secondo Cass. 16/09/2022 n. 27334 , il licenziamento intimato in malattia, prima del superamento del periodo di comporto, e quindi in violazione dell’art. 2110 comma 2 cc, è nullo e – quale che sia il numero dei dipendenti occupati – le sue conseguenze sono disciplinate dall’art. 18, comma 7 (che rinvia al comma 4), L. 300/1970: tutela reintegratoria attenuata, consistente nella reintegrazione e nel risarcimento del danno nel limite massimo delle 12 mensilità.
La sentenza si riferisce ai piccoli datori di lavoro c.d. sotto quota (che occupano fino a quindici dipendenti) che licenziano lavoratori ai quali non si applica il regime delle tutele crescenti (quindi assunti ante 08/03/2015); nel caso di tutele crescenti il problema non si pone in questi termini.
A mio avviso è il contesto metodologico del dibattito ad apparire surreale.
Se si legge la pronuncia si vede che la tutela indicata dalla Corte è sostanzialmente scelta non per la qualità del suo fondamento giuridico ma perché è considerabile la soluzione “meno peggio” negli effetti.
Essa è ritenuta dalla Corte preferibile ad altri rimedi, considerati più gravosi e che pertanto sarebbe spiacevole applicare ai piccoli datori di lavoro, giacché in tal modo – per lo stesso vizio (il licenziamento in malattia) – gli stessi verrebbero trattati peggio che i grandi.
Quali sarebbero quelle altre soluzioni?
La tutela reintegratoria piena di cui all’art. 18, comma 1 – che, se non dispiace, è prevista come rimedio generale per i vizi di nullità – e la c.d. “tutela reale di diritto comune” – che, anche qui se non dispiace, è tradizionalmente applicata ai piccoli datori di lavoro per i vizi estranei a quelli causali di cui al comma 8 della L. 604/1966.
Ora, quale che sia la sanzione giuridicamente appropriata, su un punto si può essere ragionevolmente certi: la tutela reintegratoria attenuata del comma 4 dell’art. 18, non c’entra niente. Semplicemente perché non vi è alcun appiglio normativo per applicarla e l’unico indizio a disposizione è il comma 8 dell’art. 18 che ne esclude recisamente l’applicazione ai datori di lavoro sotto quota.
Sì, è forse la più ragionevole negli effetti ma ciò è di per sè irrilevante.
Non mi pare che nessuna pronuncia si sia mai stracciata le vesti quando, a seguito del Decreto Dignità e della Cort. Cost. 194/2018, nel regime delle tutele crescenti, la condanna potesse astrattamente arrivare ai 36 mesi contro i 24 per analoghi vizi nel regime Fornero. Più irragionevole di così.
E sulla normativa dei licenziamenti ben scrisse la Sciarra in chiusura alla recente Cort. Cost. 183/2022 (sull’art. 9, comma 1, d.Lgs. 23/2015):
“(…) la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi (…)” e che “un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente (…)”.