– a cura di Filippo Capurro – Settembre 2019 –
(1) Segnalo la sentenza Tribunale di Milano 22 agosto 2019 est. Ravazzoni relativa a un caso che abbiamo seguito assistendo un dirigente licenziato da una multinazionale.
In particolare la società aveva ritenuto che il dirigente – all’epoca dei fatti Responsabile Procurement – avesse posto in essere comportamenti in contrasto con le policies e i regolamenti aziendali.
(2) Due gli aspetti che ho sottoposto all’attenzione del giudice: il vizio della preoccupa disciplinare e la piena legittimità delle condotte del dirigente.
(3.1) A mio avviso la procedura disciplinare era stata gravemente intempestiva, essendo avvenuta la contestazione a distanza di molti mesi dall’accertamento dei fatti. E’ interessante osservare che erano documentate alcune ispezioni dalle quali emergeva che punto i fati erano ben noti (tra l’altro, a voler ben vedere, anche da molto prima delle ispezioni stesse).
La Società aveva sostenuto che la complessità delle indagini e delle valutazioni interne aveva comportato un prolungamento dei tempi. Il giudice ha però rilevato che era onere della società resistente allegare e documentare che in tale ulteriore periodo erano stati svolti accertamenti ulteriori che avevano completato la conoscenza dei fatti. La società nulla invece ha provato documentalmente e chiesto di provare con testimoni. Le allegazioni in fatto a tale proposito erano generiche e prive di riscontro.
(3.2) Sulla questione giuridica della tempestività richiamo alcune interessanti pronunce.
→ Centrale è Cass. SS.UU. Cass. 27/12/2017 n. 30985 , la quale, affrontando il tema sanzionatorio del licenziamento disciplinare privo di tempestività nell’ambito di applicazione dell’art. 18 SL, ricostruisce con rigore il determinante significato dell’immediatezza: “Ciò autorizza a ritenere che il principio della tempestività della contestazione può risedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare. Si è infatti affermato che, in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile.”
Talmente significativa è questa esigenza che le Sezioni Unite fanno discendere da una tale violazione non già la c.d. tutela economica affievolita di cui all’art. 18, comma 6 SL ma quella c.d. economica forte di cui all’art. 18, comma 5. Sulla tale pronuncia rinvio su questo sito a “L’immediatezza quale requisito fondamentale del licenziamento disciplinare” .
→ Rilevante è altresì Trib. Milano, 01/07/2016 est. Colosimo secondo la quale: “Si rammenta che il principio di immediatezza non ha solo un rilievo soggettivo, posto a salvaguardia dei diritti di difesa del lavoratore: esso partecipa, altresì (e soprattutto) di una rilevanza prettamente oggettiva, che è correlata all’esigenza di assicurare la genuinità dell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro ed evitare, così, che la pendenza di una determinata questione possa essere utilizzata in modo distorto con finalità ritorsive. (…) D’altronde, la mancata immediatezza mina l’effettività del potere disciplinare, e fa venire meno la giusta causa, anche perché il lasso di tempo trascorso tra il fatto commesso e il licenziamento mal si concilia con la perdita di fiducia”.
→ Del resto, la stessa Corte di legittimità ha avuto modo di evidenziare come il datore di lavoro non possa procrastinare la contestazione disciplinare fino a quando non abbia acquisito l’assoluta certezza dei fatti: “l’interesse del datore di lavoro all’acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest’ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicché, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l’esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida”. (Cass. 23/10/2017 n. 25021).
(3.3) A proposito delle esigenze di approfondimento dei fatti da parte del datore di lavoro e del possibile procrastinarsi dell’avvio della procedura, secondo la consolidata interpretazione della Corte di Cassazione il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo e non assoluto, dovendosi commisurare anche alla complessità dell’azienda e alle attività di verifica da effettuare.
Nondimeno la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che “In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell’art. 7, terzo e quarto comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. Né può ritenersi che l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata “ex lege”, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell’organizzazione aziendale.” (Cass. 08/06/2009 n. 13167).
C’è un altro aspetto sul quale di solito richiamo l’attenzione del giudice, soprattutto quando siamo in un contesto di datori di lavoro la cui organizzazione è complessa e articolata: vero che in tali aziende i percorsi di accertamento e decisori sono più articolati, tuttavia vero altresì è che i mezzi a disposizione per far ciò sono maggiori. Ne sono prova le procedure ispettive che comportano la messa in campo di forze assai rilevanti di cui non dispongono i piccoli datori di lavoro. La dimensione dell’azienda non può dunque costituire, di per sé, un valido motivo per un trattamento di favore del datore di lavoro in ambito disciplinare.
(3.4) Quanto alle conseguente sanzionatori, interessante la recente sentenza Cass. 05/12/2017 n. 29056 che ribadisce ancora una volta l’orientamento di Cass. SS. UU. 30/03/2007 n. 7880, secondo il quale al licenziamento del dirigente esplicitamente disciplinare o comunque motivato dal venir meno della fiducia sono applicabili le garanzie di cui all’art. 7 della L. n. 300/1970 e, in caso di violazione, è preclusa la possibilità di valutare l’eventuale giustificatezza dello stesso ed è quindi dovuta al dirigente l’indennità supplementare prevista dal CCNL dirigenti in caso di ingiustificatezza.
Sulla questione rinvio anche a un mio risalente lavoro “Violazione delle regole procedurali e conseguenze sanzionatorie nel licenziamento disciplinare del dirigente” pubblicato su D&L.
(4) Nel merito mi limiterei a rinviare al testo della sentenza. I fatti sono stati ritenuti dal giudice o inesistenti o irrilevanti disciplinarmente.
(5) Quanto alla giustificatezza il giudice ha richiamato il principio per il quale “ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta “giustificatezza” non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa. In ogni caso, il recesso in questione non può risultare privo di qualsiasi giustificazione sociale perché concretizzantesi unicamente in condotte lesive, nella loro oggettività, della personalità del dirigente e, al fine di accertare la configurabilità del diritto del dirigente all’indennità supplementare di preavviso, l’ingiustificatezza del recesso datoriale può evincersi da una incompleta o inveritiera comunicazione dei motivi di licenziamento ovvero da un’infondata contestazione degli addebiti, potendo tali condotte rendere quantomeno più disagevole la verifica che il recesso sia eziologicamente riconducibile a condotte discriminatorie ovvero prive di adeguatezza sociale” (Cass 20/12/2006 n. 27197).