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– a cura di Filippo Capurro 

In data odierna la Corte Costituzionale ha depositato il testo della sentenza n. 194/2018 con cui ha reso note le motivazioni a sostegno della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015.

Vediamo ora cosa succederà.

Una breve premessa: il decreto legislativo sulle c.d. “Tutele crescenti” (d.lgs. 25/2015), che si applica ai lavoratori assunti dal 07/03/2015, ha profondamente modificato l’impianto della tutela dei licenziamenti già prevista dall’art. 18 L. 300/1970 (per i datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti) e dalla L. 604/1966.

Limitandoci qui a parlare dei datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti, il decreto ha limitato la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro e ha previsto per tutti i licenziamenti economici e per quelli disciplinari – salve per questi ultimi alcune ipotesi(2) – ristori monetari certi e crescenti in dipendenza dell’anzianità di servizio.

Per quanto qui interessa, nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (salve le eccezioni sopra richiamate) il giudice “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità” (art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015).

Il c.d. “Decreto Dignità” ha di recente aumentato questa sanzione, stabilendo un indennizzo pari a un minimo di 6 mensilità, che possa arrivare a un massimo di 36.

Il 26/09/2018 la Corte Costituzionale ha rilasciato un comunicato nel quale informava di aver dichiarato illegittima la norma sopra riportata.

In particolare è stato precisato che la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Alla luce di un passaggio della motivazione depositata oggi sappiamo cosa accadrà ora. Il passaggio è il seguente;

“Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio (…) nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).”

Quali sono questi altri criteri? Eccoli:

  • numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro al comportamento e alle condizioni delle parti (art. 8, L. 604/1966);
  • numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti (art. 18, comma 5, L. 300/1970).

La soluzione adottata, già anticipata nell’ordinanza del Tribunale di Bari dell’11 ottobre 2018 est. Calia, sarà quella della valutazione da parte del giudice, caso per caso, in ipotesi di licenziamento illegittimo nell’ambito delle tutele crescenti, per le aziende con oltre 15 dipendenti, di un’indennità risarcitoria tra le 6 e le 36 mensilità. La quantificazione sarà effettuata alla luce dei menzionati criteri.

Scarica Corte Costituzionale 8 novembre 2018 n. 194

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