– a cura di Filippo Capurro – Aprile 2019 –
Segnalo qui una sentenza relativa a una causa seguita dal nostro Studio (Trib. Monza 02/02/2019 est. Sommariva).
Il tema è interessante e riguarda la cessazione del rapporto di lavoro per fatti concludenti.
Secondo l’orientamento prevalente di giurisprudenza, il mero decorso del tempo tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’azione intrapresa dal lavoratore per ottenerne il ripristino non è da solo sufficiente a perfezionarne la risoluzione del rapporto per mutuo consenso.
Questo principio vale ad esempio anche in materia di cessazione dell’attività lavorativa per scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro). Secondo la giurisprudenza deve ritenersi che la mera inerzia del lavoratore fra la scadenza del termine e l’iniziativa giudiziaria non sia di per sé sufficiente a far ritenere una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, laddove affinché possa configurarsi una tale risoluzione è invece necessario che sia accertata – sulla base di ulteriori e significative circostanze – una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, dovendosi ritenere che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze da cui ricavare la volontà chiara e certa delle parti di far cessare definitivamente il rapporto di lavoro (Così Cass. 22/03/2019, n. 8215 e Cass. 29/03/2017 n. 8145).
Occorre evidenziare un ulteriore importante elemento di contesto: oggi le dimissioni “di fatto”, ossia per comportamenti concludenti del lavoratore, sono giuridicamente escluse dalla procedure sulle dimissioni telematiche. A partire dal 12/03/2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere effettuate, a pena di inefficacia, in modalità esclusivamente telematiche, tramite una procedura online accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 26, d.lgs. 151/2015).
Vediamo più da vicino la fattispecie della causa. Un lavoratore era stato assunto da una cooperativa nostra cliente (che chiameremo “Soggetto A“) e aveva prestato attività lavorativa presso un’impresa alla quale la cooperativa prestava servizi (il “Soggetto B“). Dopo essersi assentato dal servizio per fruire di un periodo di ferie no si era più ripresentato al lavoro e aveva poi rinvenuto quasi subito un’altra occupazione a tempo pieno e determinato presso altro datore di lavoro (il “Soggetto C“).
Il lavoratore avviava un giudizio contro il Soggetto B, rivendicando l’irregolarità la sussistenza di una somministrazione irregolare di lavoro (affermando la non genuinità dell’appalto di servizi) e quindi l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e richiedendo anche differenze retributive; tale giudizio era stato poi conciliato.
Il lavoratore avviava altresì un giudizio contro il Soggetto A, sostenendo che non era mai avvenuta la cessazione del rapporto di lavoro e mettendosi a disposizione per la ripresa dell’attività lavorativa e richiedendo le differenze retributive. Nella difesa del Soggetto A, abbiamo sostenuto che il rapporto di lavoro si era risolto per fatti concludenti, anche a fronte 1) dello svolgimento da parte del lavoratore di attività lavorativa a tempo pieno presso il Soggetto C, e 2) della domanda giudiziale di costituzione del rapporto con il Soggetto B per la medesima vicenda lavorativa, circostanze entrambe incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro già intercorso con la stessa.
Ha rilevato il giudice nella sentenza qui segnalata che, nel descritto contesto, è evidente che le scelte del ricorrente di chiedere l’accertamento di un rapporto di lavoro nei confronti del Soggetto B e di offrire le prestazioni esclusivamente alla stessa, per poi essere assunto a tempo pieno, pur determinato, dal Soggetto C sono incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro con il Soggetto A, al quale non risultava che al termine del periodo di ferie autorizzato egli abbia mai più offerto le proprie prestazioni.
Pertanto, pur non essendo mai stata formalizzata da nessuna delle due parti (il lavoratore e il Soggetto A) la cessazione del rapporto lavorativo, il comportamento dalle parti tenuto l’una nei confronti dell’altra è indice di manifesto reciproco disinteresse per la sua prosecuzione, tale da determinarne la risoluzione per fatti concludenti.
Interessante la precisazione per la quale “Se è infatti vero che, come chiarito anche da ultimo dalla Cassazione con sentenza n. 8215/19, il mero decorso del tempo tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’azione intrapresa dal lavoratore per ottenerne il ripristino non è da solo sufficiente a perfezionarne la risoluzione per mutuo consenso in mancanza di ulteriori elementi, tuttavia, nel caso esaminato, sono riscontrabili proprio quegli ulteriori elementi che dimostrano in modo inequivocabile la volontà dismissiva del lavoratore (mancato rientro sul luogo di lavoro, richiesta di costituzione di un rapporto di lavoro in capo ad altro soggetto con riferimento alla medesima vicenda lavorativa, offerta della prestazione esclusivamente nei confronti di quest’ultimo e transazione della relativa controversia)”.
POST SCRIPTUM
Integro questo mio intervento a seguito di un quesito pervenutomi da uno stimatissimo Collega giuslavorista (Antonino Della Sciucca) che osserva correttamente come la sentenza non esamini il problema dell’inefficacia delle dimissioni/risoluzione consensuale del rapporto, rese senza utilizzare le modalità telematiche. Mi chiede il Collega se si tratti di una un tema rimasto fuori dal contenzioso o solo dalla sentenza?
La questione in parola era stata in effetti immessa nel contenzioso, in quanto sollevata come eccezione giuridica dalla difesa del lavoratore, patrocinato da un valentissimo giuslavorista, oltre che rilevante filosofo (Antonio Carbonelli).
E’ vero che la sentenza non ha affrontato direttamente questo aspetto. Ma a mio giudizio non ne ha parlato solo “espressamente”, essendo però rinvenibile, da una lettura d’insieme della motivazione, la ragione per la quale non è stata ritenuta applicabile detta normativa.
A rischio di assumere una posizione un po’ audace a me pare che l’art. 26, d.lgs. 151/2015 (richiamata all’inizio di questo intervento) sia una norma di disciplina di una forma, appunto la forma delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto. La norma infatti affronta il caso in cui la volontà risolutiva del rapporto si esprima e si sostanzi in una manifestazione istantanea e quindi necessariamente incardinata in un atto formale, atto da proteggere nella sua genuinità, appunto con la procedura telematica ministeriale. Nel caso che ci occupa, invece, la volontà risolutiva si esprimeva in una manifestazione continuata e incardinata in più gesti sostanziali.
Ecco perché, a mio avviso, nella sentenza non è stata ritenuta rilevante la norma sulla modalità telematica, norma che disciplina altra materia, ossia la forma di un atto giuridico istantaneo. Non dimentichiamo oltretutto che l’accertamento giudiziale circa la sussistenza di una volontà di risoluzione del rapporto per fatti concludenti, è tutto orientato a cogliere la consistenza sostanziale e quindi giuridica dei comportamenti delle parti, e quindi assorbe e sostituisce la verifica di genuinità sulla volontà delle parti immanente alla procedura telematica.