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Cass. 24 marzo 2015 n. 5878

La giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

La Suprema Corte ha affrontato il caso di una lavoratrice licenziata per aver nominato dei file aziendali in modo spregievole ed offensivo.

La Corte d’Appello dell’Aquila ribaltava il giudizio del Tribunale, dichiarando il provvedimento espulsivo illegittimo per sproporzione tra il licenziamento e la condotta della dipendente, alla quale non poteva ricollegarsi una lesione irreparabile del rapporto fiduciario tra le parti, né un’insubordinazione o disprezzo verso il decoro e l’immagine aziendale come evidenziato dal datore di lavoro.

La Cassazione ha confermato tale decisione, chiarendo che il comportamento della lavoratrice è certamente “disdicevole e passibile di sanzione disciplinare”, ma non configura gli “estremi dell’insubordinazione né quelli di una specifica inottemperanza alle mansioni affidate alla lavoratrice, né è in sé idoneo a ledere concretamente l’immagine della Società datrice di lavoro e dei suoi organi; rimane, in sostanza, nell’ambito di una condotta volgare e certamente non commendevole, ma non assurge a gravità ed importanza tale da ledere, in termini di irrimediabilità, il rapporto fiduciario e da giustificare quindi la sanzione espulsiva”.