Cass. 21 marzo 2016 n. 5523
L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati, con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.
La Suprema Corte ha stabilito la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di una dipendente che aveva proferito insulti disonorevoli nei confronti dell’amministratore della società, benché quest’ultimo in quel momento fosse assente, in presenza di un collega.
Sul punto, i giudici di legittimità hanno precisato, stante l’indiscutibile “gravità” del comportamento, tale da “costituire giusta causa di licenziamento”, l’evidente “assenza di giustificazioni” per la lavoratrice, che “si stava finalmente conformando, alla seconda richiesta, ad adempiere ad una restituzione dovuta”; inoltre, “le parole pronunciate a freddo” non possono essere ricomprese nell’”esercizio del diritto di critica delle decisioni aziendali”.